Leonardo Boff, teologo della Liberazione (foto a destra)
Chi segue questo blog sa che l’impostazione teologica della scrivente pone al centro della vita del cristiano, oltre il messaggio cristico, l’impegno per la fondazione del Regno dei cieli, impegno storicamente disatteso dai potentati ecclesiastici, che hanno sempre sfruttato le proprie energie vitali per attecchire, rafforzarsi ed espandersi in un mondo di disuguaglianza e di ingiustizia, adeguandovisi e relegando così ai margini un messaggio evangelico che quelle ingiustizie e quelle disuguaglianze non voleva, in quanto d’ostacolo al Regno dell’amore.
Come mai il cristianesimo reale non ha tenuto fede all’impegno di “sovvertire” il mondo, di provare a realizzare una palingenesi dell’umanità che avesse come fondamento non la religione come garante del cambiamento, ma l’impegno di ogni singolo uomo?
Questo processo di inarrestabile normalizzazione dell’alternativa rappresentata dalle comunità cristiane delle origini, solitamente viene fatto coincidere con l’ascesa di Costantino I e l’ingerenza dell’imperatore negli affari interni della Chiesa. In realtà, tale processo di adattamento si manifestò quasi subito, nella seconda metà del I secolo, quando cominciarono a stabilizzarsi istituzioni quali il clero, il culto, i sacramenti ecc. e contemporaneamente il movimento cristiano perdeva la sua originaria carica rivoluzionaria. Tuttavia, anche se nei primi secoli dell’era cristiana la tendenza era quella appena descritta, sopravvivevano tra mille difficoltà comunità che resistevano all’Impero (le Chiese asiatiche a cui è indirizzata l’ Apocalisse di Giovanni ne costituiscono l’esempio più eclatante), non è un caso che il movimento cristiano sarà ancora perseguitato a fasi alterne dal potere imperiale sino all’inizio del IV secolo. La decadenza perciò non iniziò con Costantino, ossia con l’alleanza tra Impero e Chiesa, ma con l’adozione, da parte della confessione più accomodante – quella che poi emergerà come cattolicesimo – delle mentalità religiosa, politica e sociale dell’Impero, che era una mentalità in aperto contrasto con il messaggio evangelico e che aveva inchiodato alla croce un uomo che quella mentalità denunciava come satanica, opposta a Dio.
La giustificazione del fallimento del movimento cristiano in termini di vittoria sulla Storia, se da una parte presenta un certo grado di validità, almeno sul piano della logica, dall’altra non spiega affatto la rinuncia collettiva dei cristiani a risolvere le contraddizioni del mondo. La Chiesa è stata sempre avvantaggiata da questo tipo di giustificazionismo che, di fatto, si traduce in passività rispetto al mondo e ai suoi errori. All’interno della Chiesa le uniche voci che oggi si levano contro questa mondanizzazione deleteria sono rappresentate dai teologi della Liberazione dalle teologhe femministe, i quali denunciano una Chiesa che “non disturba”, amica del potere e della corruzione, sorda e cieca di fronte dalla sofferenza del mondo. Purtroppo, queste voci che gridano nel deserto sono ormai ghettizzate e spente a suon di scomuniche, di volgarizzazioni clerico-conformiste del Vangelo e di un esercito di ecclesiastici in preda al temporalismo e all’abuso del potere.
La tesi della rivalsa sull’ostilità della Storia, del guadagnare posizione rispetto alla cultura tardo-antica, è ovviamente una soluzione a buon mercato, un pilatesco lavarsene le mani, in virtù del quale i cristiani, ieri come oggi, si autoassolvono dalle responsabilità che l’adesione al Vangelo comporta, perché come giustamente ha sentenziato don Primo Mazzolari, “l’uomo che manca all’uomo è ingiusto; il cristiano che manca al cristiano è sacrilegio”. E’ sacrilegio quindi disinteressarsi della sorte dei propri fratelli perseguitati, impoveriti, emarginati da una società che non ne vuole sapere di prendere alla lettera il nuovo comandamento che Cristo ci ha donano, quell’ama il tuo prossimo come te stesso, la cui applicazione avrebbe potuto, e può ancora, sovvertire il mondo? Costituisce sacrilegio agli occhi di un cristiano il fatto che le Chiese da diversi secoli abbiano deliberatamente misconosciuto la centralità dell’amare il prossimo, imponendo il silenzio a chi, come i teologi della Liberazione, quel comandamento lo ha preso sul serio facendone il faro-guida della propria prassi?
Non è che l’idea che della sofferenza necessaria come purificazione di un mondo alla deriva è diventata la stampella dell’inerzia dei cristiani, del loro adagiarsi sulla Storia? Sarà per questo motivo, per questo chiamarsi fuori dalla Storia in attesa di un aldilà perfetto, che noi cristiani abbiamo rinunciato all’utopia, all’idea di un aldiquà perfettibile? Sarà per questo motivo che la teologia della croce, lo strumento teologico utilizzato dalla Chiesa per facilitare l’accettazione dello status quo da parte delle masse, riscuota tanto successo presso le gerarchie ecclesiastiche? In fondo, è vero o non è vero che da un sovvertimento dell’ordine sociale costituito tutti hanno qualcosa da perdere, compresa la Chiesa che trae i suoi privilegi dal mantenimento dello stesso?
Il leit motiv della teologia della croce è che Gesù abbia scelto di morire in piena libertà offrendosi in sacrificio per salvare l’umanità dal peccato e che la sua morte non sia lo sbocco naturale di una umanità coalizzata contro di Lui e contro il suo messaggio del Regno dei cieli. In un’ottica teologica tradizionale Gesù è la vittima innocente, l’agnello sacrificale per mezzo del quale il mondo si riconcilia con Dio. Rispetto a quest’ottica, la teologia della croce contiene un elemento ancora più aberrante: la redenzione dell’umanità da parte di Gesù comporta la sofferenza liberamente scelta; ergo, chiunque si sacrifica o si da spontaneamente al dolore svolge una funzione salvifica, nel caso di Gesù per tutta l’umanità, nel caso degli altri uomini per se stessi. La conseguenza di questa visione sacrificale è lapalissiana: l’esaltazione della croce presuppone l’esaltazione della sofferenza attraverso cui il mondo deve passare per espiare il peccato.
Un pensiero che non è molto distante da quello del teologo brasiliano Leonardo Boff, il quale sostiene che l’accesso alla vera comprensione del “sacrificio” di Gesù implica una rivalutazione della resurrezione in termini di riscatto di tutte le morti violente subite dagli innocenti, che Gesù testimonia la morte ingiusta tramite la propria vita consacrata all’impegno per la giustizia e il cui premio è stata la resurrezione. Anche noi, allora, abbiamo un modello da seguire, che non è la vittima sacrificale impotente sulla croce, che prende su di sé l’ingiustizia del mondo, ma il Risorto, Colui che ha sconfitto la morte e che ci promette come dono gratuito la resurrezione.