venerdì, giugno 22, 2007

Teologia della croce o Teologia del Regno?


La Chiesa non annuncia mai solo la croce e non proclama mai solo la gioiosa notizia della resurrezione di Cristo. Croce e resurrezione costituiscono l'unità di uno stesso avvenimento: colui che è stato disprezzato sulla croce, è stato anche resuscitato alla gloria. Annunciare solo il martirio della croce esalterebbe il coraggio e l'abnegazione di un eroe in favore degli uomini, ma ci lascerebbe senza speranza. Annunciare solamente la resurrezione genererebbe certamente euforia ma ci lascerebbe insensibili di fronte al destino dei crocifissi della storia. Annunciando la morte e la resurrezione insieme, come fanno i vangeli, vogliamo professare la vittoria della vita sulla morte e l'irruzione della luce liberatrice a partire dalle tenebre dell'oppressione.

Leonardo Boff, teologo della Liberazione (foto a destra)

Chi segue questo blog sa che l’impostazione teologica della scrivente pone al centro della vita del cristiano, oltre il messaggio cristico, l’impegno per la fondazione del Regno dei cieli, impegno storicamente disatteso dai potentati ecclesiastici, che hanno sempre sfruttato le proprie energie vitali per attecchire, rafforzarsi ed espandersi in un mondo di disuguaglianza e di ingiustizia, adeguandovisi e relegando così ai margini un messaggio evangelico che quelle ingiustizie e quelle disuguaglianze non voleva, in quanto d’ostacolo al Regno dell’amore.
Come mai il cristianesimo reale non ha tenuto fede all’impegno di “sovvertire” il mondo, di provare a realizzare una palingenesi dell’umanità che avesse come fondamento non la religione come garante del cambiamento, ma l’impegno di ogni singolo uomo?
I teologi che hanno affrontato questo argomento così imbarazzante hanno sempre dato risposte sfuggenti, interessate, se non ispirate al più autolesionista dei buonismi. La maggior parte di loro, infatti, per giustificare l’allontanamento del cristianesimo storico dal paradigma evangelico ricorre a un sociologismo deviante, negazionista delle responsabilità storiche della cristianità. In particolare, il fallimento del cristianesimo storico viene spiegato a partire dai concetti sociologici di “necessità storica” e di “successo”, che fanno da colonne portanti alla tesi, molto di moda in ambienti teologici tradizionali, secondo cui la progressiva istituzionalizzazione del movimento cristiano sarebbe stata inevitabile, in quanto per svilupparsi e sopravvivere a una società ostile, le comunità cristiane dei primi secoli furono costrette e scendere a compromessi con un mondo ingiusto e ad assumere le tradizionali strutture di potere in vigore nella società tardo-antica.
Questo processo di inarrestabile normalizzazione dell’alternativa rappresentata dalle comunità cristiane delle origini, solitamente viene fatto coincidere con l’ascesa di Costantino I e l’ingerenza dell’imperatore negli affari interni della Chiesa. In realtà, tale processo di adattamento si manifestò quasi subito, nella seconda metà del I secolo, quando cominciarono a stabilizzarsi istituzioni quali il clero, il culto, i sacramenti ecc. e contemporaneamente il movimento cristiano perdeva la sua originaria carica rivoluzionaria. Tuttavia, anche se nei primi secoli dell’era cristiana la tendenza era quella appena descritta, sopravvivevano tra mille difficoltà comunità che resistevano all’Impero (le Chiese asiatiche a cui è indirizzata l’ Apocalisse di Giovanni ne costituiscono l’esempio più eclatante), non è un caso che il movimento cristiano sarà ancora perseguitato a fasi alterne dal potere imperiale sino all’inizio del IV secolo. La decadenza perciò non iniziò con Costantino, ossia con l’alleanza tra Impero e Chiesa, ma con l’adozione, da parte della confessione più accomodante – quella che poi emergerà come cattolicesimo – delle mentalità religiosa, politica e sociale dell’Impero, che era una mentalità in aperto contrasto con il messaggio evangelico e che aveva inchiodato alla croce un uomo che quella mentalità denunciava come satanica, opposta a Dio.
Dunque, il passaggio logico dell’intellighenzia teologica è che senza uniformazione, senza de-sovvertizzazione, il cristianesimo non sarebbe sopravissuto alla storia; quindi il “trionfo” del cristianesimo sulla Storia e il suo propagarsi nel mondo lo dobbiamo al suo sapersi adattare di volta in volta alle condizioni socio-politiche che si presentavano, e all’avere espulso dai propri connotati il suo carattere originariamente alternativo, di opposizione al mondo ingiusto e corrotto. In questa prospettiva, il prezzo da pagare è stato la deviazione dalla fonte, dal Vangelo, per abbracciare il presente, che è un presente che respinge il Vangelo e che si regge sulla solida alleanza fra tutte le strutture di potere e di oppressione.
La giustificazione del fallimento del movimento cristiano in termini di vittoria sulla Storia, se da una parte presenta un certo grado di validità, almeno sul piano della logica, dall’altra non spiega affatto la rinuncia collettiva dei cristiani a risolvere le contraddizioni del mondo. La Chiesa è stata sempre avvantaggiata da questo tipo di giustificazionismo che, di fatto, si traduce in passività rispetto al mondo e ai suoi errori. All’interno della Chiesa le uniche voci che oggi si levano contro questa mondanizzazione deleteria sono rappresentate dai teologi della Liberazione dalle teologhe femministe, i quali denunciano una Chiesa che “non disturba”, amica del potere e della corruzione, sorda e cieca di fronte dalla sofferenza del mondo. Purtroppo, queste voci che gridano nel deserto sono ormai ghettizzate e spente a suon di scomuniche, di volgarizzazioni clerico-conformiste del Vangelo e di un esercito di ecclesiastici in preda al temporalismo e all’abuso del potere.
La tesi della rivalsa sull’ostilità della Storia, del guadagnare posizione rispetto alla cultura tardo-antica, è ovviamente una soluzione a buon mercato, un pilatesco lavarsene le mani, in virtù del quale i cristiani, ieri come oggi, si autoassolvono dalle responsabilità che l’adesione al Vangelo comporta, perché come giustamente ha sentenziato don Primo Mazzolari, “l’uomo che manca all’uomo è ingiusto; il cristiano che manca al cristiano è sacrilegio”. E’ sacrilegio quindi disinteressarsi della sorte dei propri fratelli perseguitati, impoveriti, emarginati da una società che non ne vuole sapere di prendere alla lettera il nuovo comandamento che Cristo ci ha donano, quell’ama il tuo prossimo come te stesso, la cui applicazione avrebbe potuto, e può ancora, sovvertire il mondo? Costituisce sacrilegio agli occhi di un cristiano il fatto che le Chiese da diversi secoli abbiano deliberatamente misconosciuto la centralità dell’amare il prossimo, imponendo il silenzio a chi, come i teologi della Liberazione, quel comandamento lo ha preso sul serio facendone il faro-guida della propria prassi?
Non è che l’idea che della sofferenza necessaria come purificazione di un mondo alla deriva è diventata la stampella dell’inerzia dei cristiani, del loro adagiarsi sulla Storia? Sarà per questo motivo, per questo chiamarsi fuori dalla Storia in attesa di un aldilà perfetto, che noi cristiani abbiamo rinunciato all’utopia, all’idea di un aldiquà perfettibile? Sarà per questo motivo che la teologia della croce, lo strumento teologico utilizzato dalla Chiesa per facilitare l’accettazione dello status quo da parte delle masse, riscuota tanto successo presso le gerarchie ecclesiastiche? In fondo, è vero o non è vero che da un sovvertimento dell’ordine sociale costituito tutti hanno qualcosa da perdere, compresa la Chiesa che trae i suoi privilegi dal mantenimento dello stesso?
Per teologia della croce si intende una formulazione teologica di stampo integralista, secondo cui al centro del mistero cristiano vi è non la resurrezione, cioè la vittoria di Cristo sulla morte inflitta dall’umanità, ma la Sua morte in quanto tale e la sofferenza come appendice fondamentale, per questo motivo è facilmente intuibile perché i suoi contestatori l’abbiano ribattezzata “Teologia della morte” e perché questa teologia sconfini in un culto ossessivo della croce, sia sotto il profilo iconografico che sotto il profilo simbolico. Di recente, la teologia della croce, da anni caduta in disgrazia, è stata riesumata dal nostro dottissimo pontefice, il quale con la sua operetta su Gesù, l’ ha riportata agli onori della cronaca conferendole una certa riverniciatura per renderla più appetibile ai fedeli e per dare un certo brio all’immobilismo teologico che caratterizza la dottrina cattolica. Si tratta, ovviamente, della solita fuffa teologica buona solo per i curati e le perpetue di campagna.
Il leit motiv della teologia della croce è che Gesù abbia scelto di morire in piena libertà offrendosi in sacrificio per salvare l’umanità dal peccato e che la sua morte non sia lo sbocco naturale di una umanità coalizzata contro di Lui e contro il suo messaggio del Regno dei cieli. In un’ottica teologica tradizionale Gesù è la vittima innocente, l’agnello sacrificale per mezzo del quale il mondo si riconcilia con Dio. Rispetto a quest’ottica, la teologia della croce contiene un elemento ancora più aberrante: la redenzione dell’umanità da parte di Gesù comporta la sofferenza liberamente scelta; ergo, chiunque si sacrifica o si da spontaneamente al dolore svolge una funzione salvifica, nel caso di Gesù per tutta l’umanità, nel caso degli altri uomini per se stessi. La conseguenza di questa visione sacrificale è lapalissiana: l’esaltazione della croce presuppone l’esaltazione della sofferenza attraverso cui il mondo deve passare per espiare il peccato.

La sofferenza diventa così l’ideale di una vita vissuta cristianamente, essa rientra nell’ordine naturale delle cose, perciò non bisogna allontanarla da sé ma accettarla in nome del sacrificio di sé. Espiazione e perdono poi, sono strettamente intrecciati. Solo con la purificazione attraverso la sofferenza l’essere umano si guadagna il perdono di Dio. Ecco come tramite un paralogismo di questo tipo si giustificano millenni di sofferenza e di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ecco come si passa agevolmente da una teologia simbolo della maturità del credente ai sofismi e all’apologia della violenza!
Un brillante tentativo di conciliare teologia della croce e teologia del regno è stato fatto dal teologo tedesco Moltmann con l’elaborazione della sua Teologia della speranza che, sulla falsariga del messianismo di Bloch, ha recuperato l’elemento escatologico e lo ha riposizionato al centro del cristianesimo. L’escatologia così cessa di fare da corollario e diviene l’essenza del cristianesimo. Secondo Moltmann, il cristianesimo non può ridursi a una fede intimistica, valida solo nella sfera privata, ma è chiamato a infondere speranza negli uomini per dischiudere le porte del Regno dei cieli. In concreto, questa apertura delle porte del Regno dei cieli, come si attua? Secondo Moltmann è imprescindibile la liberazione dell’uomo da quelle strutture di potere oppressive ed autoritarie che ostacolano la realizzazione in terra del Regno dei cieli. Moltmann è anche fortemente critico con i teologi della croce che nel loro entusiasmo di idolatrare la croce come massima espressione del Cristo, come feticcio impotente, estromettono la resurrezione e il significato che essa sottende. L’estromissione della resurrezione comporta in definitiva l’estromissione della chiamata del cristiano a proiettarsi verso il futuro e a realizzare una trasformazione del presente attraverso la fede nella futura resurrezione dei morti.
Un pensiero che non è molto distante da quello del teologo brasiliano Leonardo Boff, il quale sostiene che l’accesso alla vera comprensione del “sacrificio” di Gesù implica una rivalutazione della resurrezione in termini di riscatto di tutte le morti violente subite dagli innocenti, che Gesù testimonia la morte ingiusta tramite la propria vita consacrata all’impegno per la giustizia e il cui premio è stata la resurrezione. Anche noi, allora, abbiamo un modello da seguire, che non è la vittima sacrificale impotente sulla croce, che prende su di sé l’ingiustizia del mondo, ma il Risorto, Colui che ha sconfitto la morte e che ci promette come dono gratuito la resurrezione.

lunedì, giugno 11, 2007

Lettura non sacrificale del Vangelo (seconda parte)

Il punti di approdo della prima parte di questa trattazione sono i seguenti:

  1. Il Regno dei cieli è l'amore sostituito a tutto l'apparato dei rituali e dei divieti.
  2. Il Regno è l'eliminazione della vendetta nei rapporti tra gli uomini.
  3. La violenza non è concepita come un istinto umano, inestirpabile dalla natura umana. Al contrario, Gesù dimostra che ci si può liberare dalla violenza.
  4. La violenza è sovrapposta alla schaivitu, essa produce negli uomini una visione falsificante non solo della religione e della divinità, ma di tutta la reltà.
  5. L'obbedienza o la disubbidienza alla regola dell'amore genera due Regni contrapposti che non possono comunicare l'uno con l'altro. Gesù è il profeta del Regno dell'amore.

Gesù realizza una rottura definitiva con l'Antico Testamento, rottura che si traduce nell'eliminazione della pratica sacrificale e nella fine della concezione della divinità violenta. Infatti, nell'Antico Testamento la desacralizzazione dei miti, dei rituali e della stessa Legge, sui quali si reggeva la pratica sacrificale, non può realizzarsi completamente a causa dell'incompiutezza della rivelazione. Di conseguenza, anche il filone del profetismo pre e post-esilico rimane intrappolato nella concezione violenta della divinità, alimentando, ad esempio, la speranza in un "giorno di Yahvè", una nuova epifania della violenza nella quale Dio avrebbe manifestato la sua collera contro gli empi.

La differenza tra Antico Testamento e Nuovo Testamento consiste proprio rispettivamente nella presenza e assenza dell'idea della purificazione violenta del mondo ad opera di Dio. Per la precisione, lo spirito autentico del Vangelo desacralizza la violenza divina presupposta dall'Antico Testamento. Purtroppo, nel corso dei secoli, la Chiesa ha risacralizzato il Vangelo, dandone così una interpretazione in linea con la mentalità sacrificale. Anche i moderni esegeti, sia credenti che non, si accodano a una lettura di stampo medioevale del Vangelo, regredendo così a una concezione veterotestamentaria che Gesù ha cercato di demolire. I primi, infatti, fanno propria la concezione di un Dio violento che porrà fine agli abomini di una umanità peccatrice e smarrita; i secondi, invece, si limitano a denunciare tale concezione e non mettono mai in discussione la lettura che il cristianesimo ufficiale fa di questi testi.

Per accreditare la concezione sacrificale della divinità, i propugnatori del cristianesimo sacrificale citano spesso la parabola dei vignaioli omicidi di Luca 20, 15-16 in cui Gesù pronucierebbe le seguenti parole: "farà perire i vignaioli infedeli e ne metterà degli altri al loro posto”. La stessa parabola è riportata nel Vangelo di Matteo, in una versione però leggermente differente rispetto a quelle di Marco e Luca: "quando dunque verrà il padrone della vigna che farà a quei vignaioli? Gli risposero: “Farà perire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo." (Mt. 21, 40-41). Come si può notare, in Matteo non è Gesù a pronuncarsi, ma i suoi discepoli. Gesù, dunque, lascia che i discepoli si assumano la responsabilità della risposta, e infatti la risposta non può che essere conforme al pensiero dei discepoli, che è un pensiero di matrice sacrificale, che presuppone l'esistenza di una divinità violenta.

Un altro testo su cui fanno perno i sostenitori del cristianesimo sacrificale per legittimare le proprie concezioni, è l'Apocalisse.

L’apocalisse di Giovanni sembra giustificare, a prima vista, una lettura in chiave sacrificale dellla rivelazione. In effetti, il tema apocalittico sembra rappresentare una regressione verso la concezione violenta della divinità e, per certi aspetti, sembra inconciliabile con la predicazione del Regno di Dio annunciata da Gesù. E. Renan nel XIX sec. si è sforzato di spiegare questa contraddizione postulando l'esistenta di due Vangeli: una predicazione originaria che apparterrebbe solamente al Gesù “storico” più o meno arbitrariamente ricostruito, e una ripresa e una distorsione di questa predicazione in forma teologica, a partire da Paolo di Tarso in poi.

La sottoscritta è invece convinta che anche i testi passibili di interpretazione sacrificale possano essere perfettamente inquadrati in una cornice non sacrificale. Il punto di partenza è capire che la violenza apocalittica preannunciata dai Vangeli non è di origine divina. Questa violenza, nei Vangeli, è sempre riferita agli uomini, non a Dio. Il fatto che le immagini che descrivono l’apocalisse siano attinte dall’Antico Testamento può trarre in inganno il lettore, portandolo alla conclusione che quelle stesse immagini che nell’Antico Testamento sono associate alla collera e alla vendetta divine, siano espressione, nell’Apocalisse, della violenza della Divinità.

"Sentirete anche parlare di guerre e rumori di guerre; badate bene di non allarmarvi: perché bisogna che ciò avvenga, ma non è ancora la fine. Si leverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno” (Matt. 24, 6-7). La violenza apocalittica nei Vangeli è sempre riferita agli uomini, e mai a Dio. Gli esegeti non se ne rendono conto perché leggono i testi alla luce del Vecchio Testamento (nel quale effettivamente la divinità è partecipe della violenza) e rimangono fedeli alla teologia medioevale imbevuta di cultura sacrificale.
In realtà, nell’Apocalisse nessun regista divino conduce il gioco; proprio la totale assenza di Dio, prima del giudizio, conferisce a questi testi l’immagine di una umanità come unica responsabile della propria degenerazione: “E vi saranno dei segni nel sole, nella luna e nelle stelle. Sulla terra le nazioni si troveranno in angoscia, sbigottite dal rimbombo del mare e dei suoi flutti; gli uomini moriranno di spavento, nell’attesa di ciò che minaccerà il mondo, perché le potenze dei cieli saranno scosse” (Lc. 21, 25-26). Le potenze citate nel versetto di Luca non possono riferirsi alla divinità. Le potenze dei cieli non hanno nulla a che vedere né con Gesù né con suo Padre. Sono loro che hanno dominato il mondo sin dall’inizio dei tempi. Queste potenze mondane ricevono i nomi più diversi nel Nuovo Testamento; possono essere presentate sia come umane sia come demoniache e sataniche, sia anche come angeliche. Quando Paolo afferma che non è stato Dio a promulgare la legge ebraica ma un suo angelo, intende con ciò dire che questa legge è vincolata ancora a tali potenze. A seconda dei periodi storici e dopo l’intervento di Gesù nella storia umana, queste “potenze dei cieli” appariranno o come forze positive che mantengono l’ordine e impediscono agli uomini di distruggersi tra loro nell’attesa del vero Dio, oppure al contrario come dei veli e degli ostacoli che ritardano la pienezza della rivelazione.
I Vangeli ci annunciano incessantemente che Gesù deve trionfare su queste potenze, che in altre parole egli sta per desacralizzarle, ma i Vangeli risalgono nel loro insieme al primo secolo della nostra era, ossia a un’epoca nella quale questa opera di desacralizzazione è, evidentemente, ben lungi dall’essere compiuta. Perciò i redattori del Nuovo Testamento non possono fare a meno di ricorrere per designare queste potenze, a espressioni ancora contrassegnate dal simbolismo violento, anche quando essi annunciano la loro totale desacralizzazione
. . Nel momento in cui queste potenze credono di trionfare, nel momento in cui la Parola che le rivela e le denuncia come fondamentalmente violente è ridotta al silenzio dalla crocifissione, che rappresenta un nuovo assassinio e una nuova violenza, queste potenze in realtà sono vinte una volta per tutte.

Le potenze illusiorie e gli uomini vittime di tali potenze sono scandalizzati da un Dio inchiodato alla croce: per costoro costituisce motivo di scandalo che Colui che si dichiara il Figlio di Dio possa essere messo in croce come un comune malfattore. Per razionalizzare l'assurdità del fatto inaudito, gli uomini hanno confezionato il mito della vittima espiatoria, l'agnello sacrificale che toglie i peccati del mondo, non capendo che con questa operazione simbolica ricadono nuovamente nella mentalità sacrificale che esige un sacrificio per pareggiare i conti con Dio. In virtù di questa operazione che sconfessa il carattere propriamente violento e ingiusto della morte di Gesù, i difensori del sacrificale di fatto propongono una visione edulcorata e falsificante della crocifissione che li scarica parzialmente dalle loro responsabilità: nella prospettiva sacrificale, il Cristo crocefisso non appare più come una vittima a tutti gli effetti, ma come una vittima che si è offerta spontaneamente per salvare il mondo dal peccato. Si tratta di una operazione di pura demistificazione: affermare che Gesù è morto in un sacrificio, equivale a riabilitare il mondo che Lo ha rifiutato. Infatti, nella prospettiva sacrificale, gli assassini sono solo gli esecutori della volontà divina. Se c'é stato un capovolgimento così dannoso nella storia del cristianesimo, questo andrebbe proprio identificato con l'esigenza sacrificale della morte di Gesù. E invece Gesù, fra tutte le vittime mai esistite, è stata la sola capace di rivelare la vera natura della violenza.

Gesù combatte contro il sacrificio e, in generale, contro tutte le istituzioni che legittimano la violenza. I rappresentanti di quelle istituzioni, per farlo tacere una volta per tutte, lo inchiodano alla croce. Ma Gesù resuscita, vince sulla morte e su coloro che ne avevano decretato la pena capitale e con Lui resuscita anche la Parola che ha rivelato al mondo.

"La pietra che gli edificatori avevano scartato, è diventata la pietra angolare? Chiunque cadrà sopra questa pietra si sfracellerà e colui sul quale essa cadrà sarà stritolaro" (Luca, 20, 17-18).

La pietra angolare è Cristo; colui che cade su questa pietra è l'umanità intera che si scandalizza della croce: "contro di essa urteranno coloro che non credono alla Parola; a questo, infatti, sono stati destinati" (Pietro 2,8).

domenica, giugno 10, 2007

Lettura non sacrificale del Vangelo (prima parte)

I Vangeli parlano sempre dei sacrifici solo per rigettarli e negare loro ogni valore positivo. Al ritualismo farisaico Gesù oppone una frase antisacrificale di Osea: “Andate, dunque, a imparare il significato di questa parola: “Misericordia io voglio, non sacrificio”. (Matt. 9, 13). In un altro brano antisacrificale c'è molto più di un semplice precetto morale, c'é un accantonamento del culto sacrificale e al tempo stesso una rivelazione della sua funzione, ormai compiuta e decaduta:“Quando presenti la tua offerta all’altare, se lì ti ricordi che tuo fratello ha del risentimento contro di te, lascia la tua offerta là dinnanzi all’altare, e va prima a riconciliarti con tuo fratello; poi torna, e presenta allora la tua offerta”. (Matt. 5, 23-34).

Anche l'interpretazione della Passione in chiave sacrificale, che generalmente danno gli esegeti di Palazzo, non ha la minima aderenza al testo evangelico. Non c’è nulla nei Vangeli che suggerisca la morte di Gesù come un sacrificio. I passi invocati per giustificare la concezione sacrificale della Passione possono e devono essere interpretati al di fuori del sacrificio. Nei Vangeli la Passione ci è infatti presentata come un atto che arreca la salvezza all’umanità, ma in nessun caso come un sacrificio. Noi dobbiamo cioè recuperare solo la dimensione redentrice della Passione e abbandonare quella sacrificale. La lettura sacrificale della Passione deve essere criticata e dichiarata il più paradossale e il più colossale errore teologico di tutta la storia cristiana, e quella che allo stesso tempo rivela l’impotenza radicale dell’umanità di mettere in discussione i fondamenti violenti della propria società, anche quando sia a lei espressa nella maniera più esplicita.

Di tutti i rovesciamenti che la Chiesa ha imposto all’umanità, non ce n’è uno più grave di quello della lettura sacrificale della morte di Gesù. La lettura in chiave sacrificale del testo evangelico ne sovverte infatti il significato originario. Rigettare la lettura sacrificale significa assumere una prospettiva antropologica che rivela il testo nella sua autenticità primigenia, liberandolo dall’ipotesi della vittima espiatoria. Grazie alla lettura sacrificale ha potuto esistere, per venti secoli, quella che si chiama la cristianità, ossia una cultura fondata come tutte le culture, su forme mitologiche fondata sulla violenza. La cristianità è colpevole di aver prodotto il misconoscimento del testo evangelico e, basandosi su questo misconoscimento ermeneutico, di aver ripetuto forme culturali ancora sacrificali e generato una società che riflette la visione sacrificale, e che il Vangelo invece combatte.

Qualsiasi lettura sacrificale è incompatibile con il messaggio dei Vangeli, i quali rivelano senza mezzi termini il ruolo che il sacrifico ha avuto ed ha tuttora in tutte le culture e religioni. La rivelazione della violenza di tipo sacrificale messa in luce nel Vangelo rende del tutto inconcepibile ogni compromesso evangelico con il sacrificio/violenza: una simile concezione non può che dissimulare, ancora una volta, il significato vero della Passione e la funzione che i Vangeli le attribuiscono: sovvertire il sacrificio.

Ad una lettura superficiale di alcuni passi evangeli, la lettura non sacrificale sembra incontrare dei forti ostacoli, rappresentati ad es. dalla concezione violenta della divinità quale traspare nell’Apocalisse. In realtà nei Vangeli non c’è nulla di incompatibile con una lettura non sacrificale. Anche quegli elementi la cui presenza sembra contraria allo “spirito evangelico”, come il tema apocalittico, trovano spiegazione solo presupponendo una interpretazione non sacrificale, piuttosto che con una di tipo sacrificale. "Contrariamente a quanto si pensa, non c’è mai contraddizione tra la lettera e lo spirito; per raggiungere lo spirito basta abbandonarsi veramente, leggere semplicemente il testo senza aggiungervi o togliervi nulla." (René Girard).

Per avvalorare la validità della lettura non sacrificale bisogna partire dal presupposto che nulla di quanto i Vangeli affermano su Dio autorizza il postulato inevitabile cui giunge la lettura sacrificale della Epistola agli Ebrei. Questo postulato è stato formulato dalla teologia medioevale e presuppone una esigenza sacrificale del figlio da parte del Padre. Non solamente Dio reclama una nuova vittima, ma reclama la vittima più preziosa e cara, il suo stesso figlio. La lettura non sacrificale dimostra efficacemente l’assurdità di una tale esigenza. Questo postulato è riuscito più di ogni altra cosa, probabilmente, a screditare il cristianesimo nel mondo moderno agli occhi degli uomini di buona volontà, cioè per gli uomini che, pur non credenti, con le loro azioni e il loro comportamento quotidiano, fanno la volontà del Padre.

E in effetti l’esigenza sacrificale appare inaccettabile per il mondo moderno e contribuisce in larga misura al formarsi di quel sentimento di repulsa e disprezzo verso il cristianesimo “addomesticato” propagandato dalla Chiesa. Un cristianesimo basato sul sacrificio è intollerabile ed è divenuto la pietra d’inciampo per eccellenza per un mondo del tutto ribelle verso il sacrificale, e non senza giustificazione, anche se questa rivolta resta anch’essa impregnata di elementi sacrificali che finora nessuno è riuscito a estirpare. Un Dio che impone il sacrificio al proprio figlio è un Dio violento, un dio che accetta la violenza come iscritta nell’ordine naturale delle cose. In realtà, nessun passo evangelico autorizza ad attribuire alla divinità la minima violenza.
Al contrario, nei Vangeli ci è presentato un Dio estraneo a qualsiasi violenza. Se nell’Antico Testamento permangono tracce di una concezione vendicatrice di Dio, per via dell’incompiutezza della rivelazione, i Vangeli negano esplicitamente tale concezione portando così a compimento l’opera dell’Antico Testamento. Il testo fondamentale, quello che ci presenta Dio come estraneo a ogni vendetta, desideroso, di conseguenza, di vedere gli uomini rinunciare alla vendetta è Matt. 5, 44-45: “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici, pregate per coloro che vi perseguitano; così sarete figli del Padre vostro che è nei cieli, poiché egli fa sorgere il suo sole sui cattivi, e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”.
Accanto al testo sopraccitato bisognerebbe tenere presenti anche quelli che negano ogni responsabilità divina nelle infermità, nelle malattie, nelle varie catastrofi in cui muoiono vittime innocenti e soprattutto, nei conflitti. Una pratica immemorabile e inconscia di tutte le religioni primitive è qui esplicitamente ripudiata, quella che consiste nell’attribuire alla divinità la responsabilità di tutti i mali del mondo. Gli esegeti che adottano questa interpretazione sono spesso accusati di costruire una divinità lontana e astratta, impassibile alla sorte degli uomini. In realtà, nel testo evangelico non si ha a che fare con un Dio indifferente, ma con un Dio che vuole farsi conoscere e può farsi conoscere dagli uomini soltanto ottenendo da essi quello che Gesù propone loro, cioè una riconciliazione senza riserve mentali e senza intermediario sacrificale, una riconciliazione che permetterebbe a Dio di rivelarsi qual è, per la prima volta nella storia umana.
Possiamo quindi affermare che l’ostacolo insormontabile alla piena rivelazione di Dio agli uomini è la mentalità sacrificale di cui è permeata l’umanità e che sta a fondamento di tutte le sue forme culturali. L’ateismo del mondo moderno è, in questa prospettiva, radicalmente incompatibile con una lettura non sacrificale. Esso, a causa del suo scetticismo verso qualsiasi dimensione spirituale e trascendente, è incapace di rivelare i meccanismi violenti, anzi, contribuisce a perpetuarli. Negare l’esistenza della divinità significa infatti negare che dietro alla rivelazione evangelica del fondamento vittimario ci sia la divinità non violenta. E’ la divinità che, tramite suo figlio, nei Vangeli svela la violenza fondatrice di tutte le culture umane.

Per giustificare la lettura sacrificale si è obbligati a postulare, tra il Padre e il Figlio, una specie di intesa segreta che verterebbe sul sacrifico in questione: il Padre chiederebbe al Figlio di sacrificarsi e il Figlio, obbedirebbe a questa ingiunzione. Questa idea incredibile è insostenibile del patto segreto tra il Padre e il Figlio è contraddetta esplicitamente da alcuni passi del Vangelo di Giovanni: Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; io vi chiamo amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio, l’ho fatto conoscere a voi (Gv. 15, 15).
Qui siamo di fronte allo sgretolamento delle letture sacrificali, che hanno finora impedito alla potenza sovversiva del testo evangelico di mettere radici in mezzo agli uomini. La lettura non sacrificale è superiore rispetto a qualsiasi interpretazione che evochi il sacrificale, perché è l’unica che svela il meccanismo violento.

sabato, giugno 09, 2007

Il cristianesimo è una scelta esistenziale

Il cristianesimo non è una religione, ma una novità esistenziale. La fede non è un professare con le labbra delle verità dogmatiche (esclusivismo) o un astenersi pubblicamente dal fare certe cose e stigmatizzare chi invece quelle cose le fa e non ci trova nulla di amorale (moralismo spicciolo).
Oggi, il sentimento religioso, grazie all’efficace azione propagandistica messa in atto dalla Chiesa cattolica, viene sempre più identificato dall’opinione pubblica, da decenni succube dei media collusi coi poteri forti, con l’integralismo confessionale, per cui la religiosità/spiritualità di una persona è direttamente proporzionale al suo essere integralista , o fondamentalista
che dir si voglia. E’ inutile che ce lo nascondiamo: il fondamentalismo clericale ha conquistato un ampia fetta della società italiana, i cittadini italiani sono trattati dalla Chiesa alla stregua di soggetti in via di perdizione, un gregge smarrito sotto l’effetto del modernismo, del laicismo e dell’edonismo più sfrenato, da recuperare e addomesticare secondo il paradigma morale cattolico.
La Chiesa si è sempre limitata a tradurre il messaggio rivoluzionario del Vangelo in norme morali e giuridiche, in disciplina dottrinaria, che poi è la prima a non rispettare, predicando un obbedienza anche quando il cristiano, in quanto tale, avrebbe il dovere di non rispettare. I cristiani delle origini ,questa verità la sapevano bene, e infatti volentieri rischiavano la vita pur di non sottomettersi al culto idolatrico dell’imperatore, contrario alla loro fede e alla loro fedeltà al Vangelo.

Come insegna Padre Bergamaschi, il vero integralismo, o radicalismo cristiano (come lo ha battezzato Enzo Bianchi), non consiste affatto nel far osservare la dottrina a credenti e non credenti - ammesso e concesso che questa dottrina sia veramente ispirata al Vangelo -, piegare i fedeli ai dettami e ai capricci di una gerarchia ecclesiastica imbalsamata, ma consiste nell’annunciare il Vangelo e nell’insegnare un comandamento praticandolo per primi, essere cioè coerenti con ciò in cui si crede, il classico predicare bene, ma razzolare altrettanto bene, che non è una differenza da poco.

La vocazione del cristiano è una: testimoniare il messaggio evangelico. Tutto il resto è idolatria. Anche la morale, oggi tanto chiamata in causa e decantata come panacea di tutti i mali, è il cristiano che deve crearla in armonia con la novità del messaggio evangelico. Qualsiasi etica imposta a forza di diktat e di letture interessate del Vangelo è una prevaricazione che violenta le coscienze individuali.
L’idolatria è una tendenza che accomuna tutte le religioni. Mircea Eliade ha dimostrato con i suoi studi che l’uomo, dagli albori della storia, ha sempre creato “simboli” con i quali identificare la divinità: “"Un albero o una pianta non sono mai sacri in quanto albero o pianta; lo diventano partecipando a una realtà trascendente, lo diventano perché significano tale realtà trascendente" (Trattato di storia delle religioni, pag. 298). Quando simbolo e significazione coincidono, allora si ha idolatria, l’oggetto diventa dio stesso.
L’idolatria è l’elevare a Dio non solo una statua, un testo, un elemento naturale ecc., ma anche la stessa Chiesa e la sua interpretazione infallibile del mondo. Gli ebrei, che al tempo della vita terrena di Gesù elevarono al rango di Dio la stessa Legge, commisero un errore idolatrico, facendo di fatto coincidere il cosiddetto “legalismo farisaico” con la volontà del Padre. Invano Gesù cercò di insegnare loro che la fede non può e non deve diventare un contenitore vuoto da riempire con prescrizioni e rituali sterili.
Il Cristianesimo nasce come rifiuto della confusione tra Dio e Legge e come risposta teologica radicale al bisogno di “toccare” la divinità: Dio attraverso Gesù si fa uomo, si fa “prossimo”. Questo Figlio di Dio è un atto definitivo di Dio per l’umanità: è il suo farsi toccare una volta per tutte.

La fede è al tempo stesso una scelta, una proposta e una testimonianza radicale, che riguarda il nostro rapporto con noi stessi, con Dio, con il prossimo, in un’ottica di servizio, di solidarietà, di nonviolenza, di pace. La religione, invece, è tutto ciò che sta al di là dell’essenziale, è il “superfluo”, il dogma, il rito, e l’istituzione e il sacramento.
Il cristianesimo, nella sua dimensione terrena, deve essere scomodo. Un cristianesimo che scende a compromessi con il potere, con le oppressioni, con il legalismo di ieri e di oggi, è un cristianesimo che fallisce ancor prima di provare a realizzare il cambiamento. Ma il cambiamento, la metanoia, la metamorfosi, deve prima avvenire dentro di noi, altrimenti non saremo mai in grado di realizzarlo fuori di noi (meatanoia universale), di realizzare la trasfigurazione del mondo, cioè di prepararci all’avvento del Regno dei cieli. In tal senso, la Chiesa, se, è veramente detentrice del messaggio evangelico e della preservazione della sua genuinità, è chiamata ad elaborare una teologia della carità, a sposare una radicalità evangelica senza la quale la religione è adesione superflua al presente, che è ontologicamente un presente di ingiustizie, incompatibile con il Regno dei Cieli.
Come sostengono i teologi della Liberazione, le Chiese dovrebbero recuperare questa dimensione essenziale del Vangelo, che consiste nel saper concretizzare, nelle sperequazioni del mondo attuale, il discorso della montagna. Di fronte al discorso della montagna, si aprono due prospettive totalmente antitetiche: o ci si apre all’esperienza autentica degli altri, o la si nega dichiarandola non allineata con le Scritture, con la dottrina, con i dogmi ecc.

Dobbiamo, in sintesi, recuperare la centralità della “Teologia del Regno”.

Il nucleo centrale della “Teologia del Regno” è infatti il discorso della montagna.
Il discorso della montagna rappresenta un capovolgimento dei valori correnti: i ricchi sono umiliati, gli oppressi innalzati, i diseredati della terra sono i destinatari e i beneficiari del discorso, i veri depositari del Regno. Gesù interpreta messianicamente il passo di Isaia 61, e proclama l’anno del giubileo. Il giubileo concedeva la libertà agli schiavi e la ridistribuzione della terra. Ecco, Gesù proclama che le parole di Isaia si erano compiute con la sua Venuta, è giunto il tempo del Messia, Dio manifesta la sua misericordia ai poveri. Non è un caso che subito dopo aver affermato ciò, i Giudei complottino contro di lui per farlo fuori.
Ancora una volta, Gesù conferma che Dio è dove meno ci si aspetta, soprattutto dove non se Lo aspetta la casta politico-religiosa.

Quando Giovanni Battista, incarcerato a prossimo alla decapitazione, mandò a dire a Gesù per mezzo dei suoi discepoli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?”. Gesù ripose: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me” (Mt. 11, 2-6).
Beato colui che non si scandalizza di me”, ossia beato colui che non si scandalizza di un Gesù che non si è messo a capo di un esercito con cui liberare la terra promessa dall’occupante romano, o che non è stato rampollo di una famiglia della nobiltà sacerdotale, come l’immaginario collettivo giudeo si aspettava.

Perché ebbi fame e mi deste da mangiare;
ebbi sete e mi deste da bere; fui pellegrino e mi ospitaste;
ero nudo e mi rivestiste;
infermo e mi visitaste;
carcerato e veniste e trovarmi.

Che cos'è il cristianesimo non religioso?


Bonhoeffer, il teologo sovraconfessionale del cristianesimo non religioso, vittima del nazismo e martire di Cristo, si poneva spesso questo interrogativo, anzi, non è esagerato affermare che ne era quasi tormentato. Un interrogativo che le gerarchie ecclesiastiche, nella loro ansia di smerciare la propria mercanzia (la religione), non si sono mai poste né mai, presumo, se lo porranno.
Bonhoeffer aspirava a una forma di cristianesimo che potremmo definire esistenziale, connotato dal superamento delle contrapposizioni - e contraddizioni - confessionali e del devozionismo teologico. Il cristianesimo nella sua forma tradizionale, il cristianesimo reale, oltre a non fare più presa sui fedeli, non rappresenta più da un pezzo – se mai lo ha rappresentato in 2000 anni di storia – il Vangelo, concepito come vocazione alla fedeltà alla Terra, alla dimensione mondana. Questo pensiero di Bonhoeffer è oggi più che mai attuale e oserei dire profetico, vista la tendenza moderna a risacralizzare tutto, e vale la pena di approfondirlo.

Per Bonhoeffer l’antitesi, strumentalizzata a livello mondiale dalle religioni, tra Dio (trascendente) e mondanità (immanente), non reggerebbe alla prova dei fatti; di più, ad un analisi spassionata delle ricadute negative che essa ha avuto sulle coscienze e continua ad avere, si rivela un colossale errore, l’incipit di un orientamento anticristiano tout court. Chi ha veramente a cuore la causa di Dio, non può contrapporla alla causa del mondo. Al contrario, l’amore di Dio deve spingere all’amore del mondo e all’eliminazione delle ingiustizie che lo deturpano.

Sulla Terra, Cristo è sceso, si è fatto carne, ha seminato la buona novella per la costruzione del Regno dei cieli, ha sofferto con noi ed è stato vittima del Potere. Sulla Terra, gli uomini devono costruire l’azione e mettere in pratica la Buona Novella, non in vista di una vita oltre la vita, ma in vista del Regno dei cieli che deve essere costruito qui e ora. In quest’ottica mondana, non è ammessa l’alternativa cielo-terra, essa è una trappola, una pietra d’inciampo a causa della quale gli uomini hanno messo in atto la fuga dal mondo, per allontanare da sé le proprie responsabilità e il proprio fallimento di fronte a Dio. Il Dio della croce ha assunto le sembianze veterotestamentarie del Signore autoritario e onnipotente, un Deus ex machina che interviene per sanare laddove gli uomini hanno fallito. Le religioni che hanno contribuito a costruire quest’immagine fredda e distante del Dio cristiano, utile al fine di manipolare e controllare la coscienza collettiva, hanno inquinato e profanato la vera essenza della divinità. Il dio cristiano, nel pensiero teologico bonhoefferiano, non è un Dio disinteressato ai mali del mondo, estraneo all’aldiquà; Egli, in realtà, non è un Dio indifferente, ma un Dio che cammina in mezzo a noi, che vuole far conoscere la sua vera natura agli uomini e che si è fatto conoscere tramite Gesù: nel Vangelo di Giovanni è spesso ribadita l’idea che Gesù costituisce l’unica via per giungere al Padre, che Egli è la stessa cosa del Padre; Egli è la Via, la Verità, la Vita. Per questo motivo, coloro che hanno visto Gesù, che ne mettono in pratica gli insegnamenti, hanno visto il vero volto del Padre.

Torniamo, dunque, all’interrogativo di fondo: in che cosa consiste il cristianesimo non religioso, è praticabile oggi, ha degli agganci col Vangelo, oppure è solo un’altra forma religiosa, un dozzinale prodotto di marketing, spacciato come tale dai Mercanti del Tempio?

Analizziamo come Bonhoeffer definisce il cristianesimo non religioso:

“Spesso mi chiedo perché un “istinto cristiano” mi spinga frequentemente verso le persone non-religiose piuttosto che verso quelle religiose, e ciò assolutamente non con l’intenzione di fare il missionario, ma potrei quasi dire “fraternamente”. Mentre davanti alle persone religiose spesso mi vergogno a nominare il nome di Dio – perché in codesta situazione mi pare che esso suoni in qualche modo falso, e io stesso mi sento un po’ insincero (particolarmente brutto è quando gli altri cominciano a parlare in termini religiosi; allora ammutolisco quasi del tutto, e la faccenda diventa per me in certo modo soffocante e sgradevole) – davanti alle persone non-religiose in certe occasioni posso nominare Dio in piena tranquillità e come se fosse una cosa ovvia. Le persone religiose parlano di Dio quando la conoscenza umana (qualche volta per pigrizia mentale) è arrivata alla fine o quando le forze umane vengono a mancare – e in effetti quello che chiamano in campo è sempre il deus ex machina, come soluzione fittizia a problemi insolubili, oppure come forza davanti al fallimento umano; sempre dunque sfruttando la debolezza umana o di fronte ai limiti umani; questo inevitabilmente riesce sempre e soltanto finché gli uomini con le loro proprie forze non spingono i limiti un po’ piú avanti, e il Dio inteso come deus ex machina non diventa superfluo; per me il discorso sui limiti umani è diventato assolutamente problematico (sono oggi ancora autentici limiti la morte, che gli uomini quasi non temono piú, e il peccato, che gli uomini quasi non comprendono?); mi sembra sempre come se volessimo soltanto timorosamente salvare un po’ di spazio per Dio; – io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo. Raggiunti i limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolvibile.
(D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, ed. Paoline, Milano, 1988, pag. 349)

La religione è solo una veste corrotta del cristianesimo. La Chiesa è comunità di credenti e non credenti, accomunati dal valore della fratellanza e della solidarietà. Un credente più un altro credente che dal punto di vista teologico siano sulla stessa lunghezza d’onda, fanno una confessione e niente di più, ma due credenti che appartengono a orizzonti teologici differenti e che dialogano dialetticamente con un non credente, fanno la Chiesa! Il significato originario della parola greca Ekklesìa è opposto a quello della parola airesis, "setta" (che non significa affatto eresia, significato aggiuntivo attribuito nel corso dei secoli dalla Chiesa per isolare i movimenti cristiani dissidenti): l’ekklesìa è il luogo dell’incontro, della valorizzazione, in chiave democratica, di tutte le posizioni, è la comunità che esce fuori dagli schemi e dall’addomesticamento religioso, è l’accoglienza senza pregiudizi di sorta, è la Chiesa proiettata sui non credenti e sui “diversamente” credenti; è una Chiesa che non fa ghetto, ma si apre al mondo. E, in definitiva, lo spirituale contrapposto al temporalismo, all'abuso del potere e alla coercizione psicologica esercitata dalle religioni in ogni tempo e in ogni luogo.

Qualsiasi teologia è espressione di una spiritualità e di un modo di essere cristiano peculiari. Perciò è idolatrica la pretesa avanazata dalla Chiesa di voler omogeneizzare il pluralismo teologico e di bollarlo come deviazione dall’autentica fede cristiana. Lo spirito di Dio non è selettivo, esso è come il vento che "soffia dove vuole e ne senti la voce,ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito" (Giovanni 3,8) e né le gerarchie ne lo stesso Papa possono arrestarne il movimento.

Gesù disse, "Se coloro che vi guidano vi diranno: "Ecco, il Regno è nei cieli", allora gli uccelli dei cieli vi precederanno. Se vi diranno: "E nei mari", allora i pesci vi precederanno. Il Regno, invece, è dentro di voi e fuori di voi. Vangelo di Tommaso, Loghion 3