giovedì, agosto 30, 2007

La questione del sacerdozio femminile

In questo post riprendo, apportandovi delle modifiche, un mio intervento su un forum pubblico in cui affrontavo la questione del sacerdozio femminile da un punto di vista esclusivamente evangelico, analizzando quei passi in cui Gesù si pronuncerebbe contro o a favore del sacerdozio come istituzione religiosa ben consolidata nella Palestina del I secolo. Questa analisi è necessaria perché da parte di moltissimi cristiani viene postulata l’interdizione delle donne, prescritta niente meno che da Gesù, dall'ordinamento sacerdotale! In realtà tale prescrizione non ha alcuna base scritturistica, se non in quei pochi passi delle lettere paoline e pseudopaoline che, come cercherò di documentare, non dimostrano nulla se non che Saulo sulla questione della parità sessuale era eccessivamente puritano e un po’ indietro, non rispetto ai tempi in cui viveva, ma rispetto al Vangelo stesso.

Tralasciando i passi estrapolati dalle Lettere della cosiddetta “Scuola di Paolo”, prendiamo in esame solo quelli relativi alle lettere autentiche, che sono: Lettera ai Galati, 1 e 2 Lettera ai Corinzi, Lettera ai Filippesi e Lettera ai Romani.
Inizio con l’invitare a leggere attentamente gli scritti di Paolo con uno spirito più critico e scevro da intenti apologetici, perché affermazioni del tipo “i concetti di Paolo risiedono tutti nell’Antico Testamento” significa misconoscere niente meno che la teologia e la cristologia paoline. Paolo, infatti, scrivendo ai Romani, dice: “non siete più soggetti alla Legge, ma alla grazia” (Rom. 6,14), e ai Galati “…per le opere della legge non sarà giustificato nessuno” (Gal. 2,16), o ancora “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendosi fatto egli maledizione per noi…” (Gal. 3, 13).

Non c’è un solo passo in tutto il Nuovo Testamento in cui Gesù affermi (o in cui un autore neotestamentario gli fa affermare) l’esclusione delle donne dal sacerdozio. Non ha senso appoggiarsi alla tradizione della Chiesa per avvallare una convinzione, un dogma che poggia su consuetudini che prese piede a partire dal III secolo (quindi ben tre secoli dopo Gesù), poiché è ormai accettato da tutti gli studiosi e dagli stessi cristiani più progressisti che buona parte della tradizione della Chiesa non risale al Vangelo, anzi che per molti aspetti è inconciliabile con esso.
Gesù non avrebbe mai potuto ordinare un tale precetto per una serie di motivi:

1. Non ha mai creato alcun sacerdozio maschile in contrapposizione alla classe sacerdotale del tempio di Gerusalemme, come invece fecero gli esseni di Qumran, per i quali i sacerdoti del tempio erano impuri, quindi illegittimi. Anche lo stracitato gruppo dei “Dodici Apostoli”, considerato il modello della gerarchia ecclesiastica, pare non sia mai esistito nella veste sacerdotale che a posteriori gli è stata ascritta: l’unico a menzionare il termine apostolos (in greco “colui che va avanti, che precede”) come titolo dei “Dodici”, è Luca in Lc. 6,13 e tale titolo non ha alcuna connotazione religiosa. Gli apostoli erano coloro che precedevano Gesù nei villaggi in cui Egli predicava la buona novella. Il fatto che Gesù abbia affidato ai soli maschi l’annuncio della buona Novella nei villaggi della Palestina si spiega semplicemente con un motivo di ordine pratico: per le donna, a quell’epoca, era pericoloso percorrere chilometri di strada da sola, poteva essere aggredita in qualunque momento; inoltre, i giudei, molto tradizionalisti in fatto di insegnamento, non avrebbero mai accettato la predicazione di una persona di sesso femminile. Nonostante ciò, Gesù incoraggiava le donne a farsi portavoce della buona novella, spigendo per un effettivo cambiamento dei costumi sociali e per un superamento dei tabù imposti dalla tradizione, cosa che doveva innanzitutto partire dai suoi fedeli discepoli. Se i suoi discepoli, dopo la sua morte, non sono stati in grado di andare oltre la tradizione, significa che non hanno recepito al 100% il messaggio del loro maestro.

2. Gesù non ha mai istituito un clero così come si è andato costituendo nei primi tre secoli dell’era cristiana. Quando, in Mt. 6,5-6 afferma che “quando pregate non siate come gli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze per farsi notare dagli uomini… Ma tu, quando vuoi pregare, entra nella tua camera e, serratone l’uscio, prega il Padre tuo che sta nel segreto…” non fa altro che rivelare il superamento stesso del sacerdozio come istituzione sacra legata a un luogo di culto. Per Gesù non c’è più bisogno della figura del sacerdote, intesa come mediatore tra l’uomo comune e Dio. La preghiera, il momento più alto della comunicazione tra l’uomo e il suo Creatore, può essere diretta e non più mediata dall’intercessione del sacerdote, preposto all’amministrazione del culto. Niente è stato più radicale di ciò nel suo annuncio.

3. Ne consegue che se Gesù non ha mai parlato di sacerdozio femminile né, tanto meno, di sacerdozio maschile, è perché non gli é mai passato per la mente di crearne uno, per cui il problema dell’ammissione/esclusione delle donne dal sacerdozio non si poneva affatto per il Figlio di Dio. Il motivo di tale apparente “noncuranza” è molto semplice a va ricercato nei Vangeli:

“Credimi donna; è venuto il tempo in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quello che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene il tempo, anzi è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarli in spirito e verità.” (Mt. 21-24).

Sentenze lapidarie per cui “chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie (I Cor. 7,32) hanno fornito alla Chiesa l’argomentazione teologica per la creazione del celibato giustificandolo col fatto che i non sposati hanno più tempo da dedicare a Dio.
Certo, non si può pretendere che il pensiero di un ebreo, Paolo di Tarso, proveniente dalla diaspora, vissuto nel I sec. d.C., con delle idee religiose un po’ confuse, e per giunta in odore di falsità secondo i gli emissari di Giacomo, sia conforme in materia di parità sessuale a quello del Figlio di Dio, che per i cattolici è la seconda persona della Trinità. Ma che si avanzi la pretesa, da parte di alcuni, digiuni di Vangelo - quello autentico predicato da Gesù - che il pensiero di Saulo di Tarso discenda direttamente da presunte disposizioni che Gesù avrebbe dato ai suoi discepoli o che derivi addirittura da una rivelazione personale che Cristo avrebbe riservato a Paolo, questa, con tutto il rispetto per i credenti di confessione cattolica, mi pare una fesseria che oltre ad offendere il buon senso comune, offende anche Dio. A meno che non si consideri Saulo di Tarso infallibile come l’ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede…

Comunque, tornando a cose più serie rispetto all’infallibilità del vicario di Cristo, il punto non è la contestualizzazione storica di alcuni precetti paolini, chiamata in causa da alcuni per interpretare in modo corretto alcuni passi ambigui delle sue lettere. Il punto è che prendere come articolo di fede tutto ciò che Saulo ha impartito alle comunità da lui fondate nel I secolo d.C. equivale a distorcere il Vangelo in alcuni dei suoi punti più innovativi e rivoluzionari, quelli cioè che rompono esplicitamente non solo con la tradizione ebraica e, nello specifico, con la Legge, ma anche con tutti i sistemi culturali intrisi di misoginia e discriminazione dell’”altro”, dove per “altro” si intendono tutti i soggetti emarginati nel mondo antico: donne, schiavi, barbari, lebbrosi, malati mentali, prostitute ecc. E’ Paolo di Tarso colui che ordina ai suoi proseliti, in uno dei suoi voli pindarici più negativi “…di non avere relazioni con chi, portando il nome di fratello, fosse fornicatore o ubriacone, ladro, maldicente, avaro, idolatra. Con gente simile non dovete neppure prendere il cibo insieme” (1 Cor. 5,11). Non mi risulta che Gesù abbia mai evitato frequentazioni equivoche; anzi, spesso dava scandalo mangiando con “pubblicani e peccatori”, tanto da suscitare la disapprovazione dei suoi discepoli più stretti e l’avversione dei farisei legalisti. Gesù replicava alle critiche dei suoi avversari che “il medico è venuto per i malati, non per i sani” e che “i pubblicani e le prostitute vi precederanno nel regno dei cieli”.

A questo punto una domanda sorge spontanea: va bene che Paolo, molto probabilmente, non ha mai conosciuto Gesù nella sua vita terrena, ma allora, quale Vangelo avrà mai ricevuto? Certamente non quello predicato da Gesù! In certi suoi atteggiamenti Paolo sembra ancora molto legato alla tradizione farisaica piuttosto che ispirato alla buona novella. Più che un impostore fa la figura dello schizofrenico: prima scrive che “voi tutti siete uno in Cristo Gesù” poi predica l’isolamento sociale per i “diversi”, e per di più per i “fratelli” diversi, cioè coloro che appartengono alla comunità cristiana! Non mi pare che Saulo segua alla lettera il comandamento più importante dato da Gesù: ama il tuo prossimo come te stesso. Eppure quel comandamento Gesù lo ha messo in pratica in tutte le sue azioni sino alla crocifissione. Quando si è interposto fra l’adultera e i suoi lapidatori, rischiando di essere lapidato, o quando ha guarito i lebbrosi su cui cadeva la segregazione sociale imposta dal Levitico, o quando ha discusso con la Samaritana, una donna e per di più eretica, e le ha affidato l’annuncio della venuta del Messia nel suo villaggio, ha certamente fatto la volontà del Padre, non la volontà di Saulo.
Allora io posso capire la preoccupazione dei cattolici di difendere la reputazione di Saulo dagli attacchi dei suoi dettratori. Ma non posso non far finta che nelle Lettere autentiche di Saulo ci siano incoerenze e incompatibilità rispetto all’annuncio del Nazareno. Metterle in luce non significa affatto non contestualizzarle o peggio fare della propaganda anticattolica.

Detto questo, la battaglia portata avanti da molte donne per ottenere l’apertura del celibato al sesso femminile non mi vede partecipe in quanto sono convinta, e in ciò supportata da molti passi scritturistici, che l’intenzione di Gesù non era quella di creare, su nuove fondamenta, una nuova classe sacerdotale in antitesi a quella sadducea che faceva riferimento al tempio, ma, al contrario, di abolirla del tutto. Per lui, infatti, la casa del signore non era una costruzione di pietra ma – e in ciò egli è stato veramente rivoluzionario – il tempio andava sostituito con il suo corpo, cioè con la sua parola messa costantemente in pratica.
Gnostica

sabato, agosto 18, 2007

Lc. 18, 10-14: Scàndalon e Agàpe

Il fariseo e il pubblicano

In questa parabola è trattato il tema della giustificazione e, più in generale, il tema del rapporto con il prossimo.
Nell’immaginario collettivo ebraico il fariseo rappresentava la purezza nell’osservanza della Legge e la trasparenza morale, il pubblicano, all’opposto, la moralità compromessa dall’esercizio di una professione empia e impura. Si tratta della classica contrapposizione incentrata sulla purità/impurità che regolava i rapporti tra i membri della comunità giudea al tempo di Gesù. Qualsiasi sistema religioso per mantenersi in vita crea la dualità, bene/male, puro/impuro, circonciso/incirconciso ecc e Israele non sfugge a questa regola, anzi, Israele si fonda sulla dualità e sulla separazione.

C’è un bellissimo saggio, sempre attualissimo, dell’antropologa sociale Mary Douglas, Purezza e Pericolo, in cui viene indagata l’ancestrale paura biblica di dissolvere la specificità si Israele come popolo eletto. L’ossessione degli ebrei per la purezza e la differenziazione rituale si traduce nella formazione del Levitico, quel sistema di prescrizioni legali restrittive tanto fanaticamente idolatrato dall’ebreo comune quanto considerato inutile da Gesù ai fini della preparazione del Regno dei cieli.

Ciò che differenzia la figura del fariseo da quella del pubblicano non è la sua posizione verso la Legge e verso Dio, ma la posizione verso il prossimo: l’uno mostra di avere un atteggiamento sprezzante e superiore rispetto ai pubblici peccatori, l’altro, conscio delle sue mancanze, si umilia, chiede perdono a Dio, si considera l’ultimo degli ultimi.
Il fariseo è la quintessenza dello skàndalon, il pubblicano penitente la quintessenza dell’agàpe, dell’amore per il prossimo.

Faccio una breve digressione sul significato della parola greca skàndalon. Skàndalon è generalmente tradotto con “scandalo”, “trappola”, “insidia” posta lungo il cammino. La parola e il verbo derivato skandalizo, “causare scandalo”, vengono dalla radice skàzo, che significa “zoppicare”. Nei Vangeli ci sono un gruppo di testi imperniati sulla nozione di skàndalon e in base ai quali l’unica accezione plausibile di scandalo è la seguente: l’alienazione da se stessi, la tentazione che allontana il discepolo di Cristo dal Regno dei cieli e perciò il contrario dell’amore in senso cristiano:“Chi ama il proprio fratello abita nella luce e non vi è in lui alcuno scandalo. Ma chi odia il proprio fratello abita e cammina nelle tenebre, e non sa dove va perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi”. (1Giov. 2, 10-11).
Che lo skàndalon sia poi tutto umano, nel senso di errore umano, lo rivela un altro fondamentale testo evangelico, Matteo 16, 22-23, in cui Pietro reagisce scandalizzato all’annuncio, da parte di Gesù, della passione: “Pietro, trattolo a sé, cominciò a rimproverarlo dicendo: “Dio te ne scampi, Signore! No, questo non ti accadrà mai!” Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: Va’ lontano da me, Satana! Tu mi sei di ostacolo, perché i tuoi pensieri non sono quelli di Dio, ma quelli degli uomini”. Nonostante Gesù istruisca i suoi discepoli sulla natura dello skàndalon (Gv. 16,1 “Vi ho detto queste cose per preservarvi dallo scandalo”), Pietro è scandalizzato dalla rivelazione della passione, poiché per lui la passione non può che costituire uno scandalo, così come il fariseo perfezionista è scandalizzato dalla presenza nel Tempio del pubblicano peccatore incallito.

Lo skàndalon, dicevamo, è la negazione dell’agàpe. Nell’episodio del fariseo e del pubblicano è l’esemplificazione del giudice che cerca di sfuggire al giudizio che esprime sugli altri: “Non giudicare, per non essere giudicati, perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?” (Mt. 7,1-3). Da questo testo polemico si evince benissimo come siano sempre gli ipocriti, gli “zoppi”, coloro che credono di cavarsela denunciando l’ipocrisia del prossimo. Con lo skàndalon si perpetua all’infinito la spirale dei doppi: giusto/ingiusto, osservante della Legge/sacrilego, ed è per questo motivo che Gesù cerca di spezzare la circolarità dei dualismi sanciti dalla Legge (che si ripropongono anche oggi in istituzioni religiose come la Chiesa cattolica), al punto da porsi al di fuori della comunità e di essere messo a morte come bestemmiatore?

O non è forse vero che la Chiesa fonda la propria esistenza sulla dualità clero/base dei fedeli? La gerarchia ecclesiastica si considera di qualche gradino più in alto dei comuni fedeli. Ed ecco il simbolismo della piramide: in basso i trasgressori, i profanatori, i peccatori, in alto l’èlite spirituale, il clero irreprensibile, infallibile, intoccabile.

I detentori del potere clericale dovrebbe attingere i seguenti insegnamenti da questa parabola: l’eccessiva sicurezza nella propria incorruttibilità (e nell’infallibilità assegnata arbitrariamente al vicario di Cristo) apoditticamente postulata, non rappresenta una giustificazione al cospetto di Dio. Questa idea, infatti, come afferma l’incipit della parabola (“disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri”), è niente meno che una presunzione, dal momento che l’unica verità e che l’uomo, al di là della fede e delle azioni personali, è peccatore e che la vera dicotomia non è tra peccatori e non peccatori, ma semmai tra peccatori non giustificati (categoria rappresentata dal fariseo presuntuoso) e peccatori giustificati. La discriminante tra le due categorie tipologiche umane è l’ammissione davanti a Dio della propria condizione di peccatore, secondo il famoso rovesciamento valoriale: “Chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”.
Infallibilità e fede cristiana non possono coesistere, poiché l’una è la negazione dell’altra, il salire in cattedra è opposto al rendere servizio al prossimo. Infatti, nell’Antico Testamento lo skàndalon, la pietra d’inciampo per eccellenza, è l’idolatria, che a dispetto di quanto si crede comunemente, non è solo culto degli idoli, ma culto della propria autosufficienza, del proprio ego o, viceversa, adorazione del potere satanico (cfr. Mt. 4, 6-10), del Potere che, opponendosi a Dio, Lo nega e Lo sostituisce. Satana non è soltanto il principe di questo mondo, dominato dall’egoismo e dalla violenza, ma è anche il principe del disordine, dello scandalo stesso che si pone sempre di traverso sulla nostra strada per ostacolare i nostri sforzi verso il Regno dei cieli.

Non si può tacere che il massimo dello scandalo per la società giudaica di allora fu il Discorso della Montagna, le Beatitudini che rovesciando l’ordine vigente, annunciavano l’avvento del Regno di Dio e contemporaneamente facevano di Gesù un pericolo, un sovvertitore che si era posto al di fuori del gruppo, da eliminare al più presto? (cfr. Lc. 4,28-30). Eh sì, perché un Messia che non stava dalla parte dei potenti, dell’establishment politico-religioso dava scandalo, allo stesso modo, oggi, per il Vaticano è motivo di scandalo che alcuni fedeli non si sottomettano alla sua autorità, al catechismo della morte del cristianesimo e della coscienza. Recentemente, c’è stato un fatto di cronaca che ha suscitato clamore presso le gerarchie vaticane, un pericoloso precedente da isolare: una ragazzina, durante una lezione di catechismo all’insegna dell’omofobia, ha osato contestare il vescovo, che aveva appena finito di istruire i presenti sulla necessità di tenere gli omosessuali fuori dalla Chiesa, dicendo a viso aperto che secondo lei "non è giusto”. Apriti cielo: il vescovo anticristiano ha subito zittito la ragazzina dandogli della “scema”, i genitori sono stati invitati a tenere sott’occhio la ragazzina e gli altri compagni che l’hanno difesa, insomma un vero caso diplomatico. Io mi faccio una domanda, e ve la faccio anche a voi: secondo voi, chi ha dato più scandalo (nel senso spiegato sopra di alienazione dall’amore), la ragazzina o il vescovo intollerante?

Gnostica

lunedì, agosto 13, 2007

Siamo Tutti santi!


Sabato 11 Agosto il quotidiano La Stampa ha pubblicato un intervista a Vittorio Messori, il Messia dei giornalisti dello schieramento cattoconservatore, nonché fiore all’occhiello della pubblicistica vaticana più ferocemente oltranzista su temi scottanti quali pacs, aborto ecc.
Il contenuto di tale intervista è a dir poco scandaloso, infagottato com’è di pregiudizi e stereotipi made in Vatican portati però all’estremo dell’autoassoluzione rispetto alla pedofilia in tonaca. Insomma, la solita intervista-rigetto di un intellettuale cattolico al capolinea, i cui conati, nonostante la stagionatura e la derivata muffa intellettuale, non cessano di riversarsi sulle pagine dei quotidiani nazionali che fungono da sgabello della casta clericoltranzista e del codazzo di politici baciapile, Mele e Sircana in prima fila.

Analizziamo, dunque, le profondità del dotto vaticanista.

Il nostro pennivendolo esordisce con una frase shock, di quelle da incorniciare a futura memoria dello sfascio intellettuale di questo paese di paraculi.

“Un uomo di Chiesa fa del bene e talvolta cade in tentazione? E allora? Se fosse così per don Pierino Gelmini, se ogni tanto avesse toccato qualche ragazzo ma di questi ragazzi ne avesse salvati migliaia, e allora?

E allora lo dico io, caro divulgatore della buona novella degli impuniti e degli sciacalli!

Primo. Vittorio da Sassuolo crede che la fede sia una patente a punti: un punto di qua facendo elemosina, un punto di là salvando qualche drogato dall’autodistruzione… e allora si acquisisce un “bonus” per fare pedofilia…. Poco importa poi se l’immagine pubblica del salvatore di turno, come don Gelmini, sia leggermente discostante da quella privata… l’importante è il perbenismo pubblico, l’acclamazione delle masse e la copertura mediatica. Ora, mi chiedo – anzi non me lo chiedo proprio, perché Messori non è uno sprovveduto - se Messori da Sassuolo è al corrente delle intrepide imprese dell’arcangelo Gelmini. La sua agiografia è ricca di colpi di scena degna di un vip, di persecuzioni da parte della magistratura, di calunnie e provocazioni… un vero precursore del nano di Arcore in salsa clericale… che accoppiata da riflettori! Per la cronaca agiografica: pluripregiudicato (arrestato tre volte, la prima per bancarotta fraudolenta, la seconda estradato in Italia dal Vietnam del Sud, per aver frodato la vedova del presidente Diem, la terza per corruzione), arcifamoso per le sue innocue “tentazioni” (tanto innocue che il direttore del carcere dove scontò la pena di quattro anni spesso lo teneva in isolamento per non correre il rischio che mettesse le mani addosso agli altri detenuti), nababbo da mille e una notte (negli anni settanta girava a Roma con una Jaguar ed era proprietario di varie aziende in America Latina). Un vero santo ante litteram!

Secondo. Probabilmente Messori non è in pieno possesso delle sue facoltà mentali (il Vaticano dovrebbe commissionare una perizia psichiatrica), se sostiene impudentemente che le molestie subite da qualche drogatello valgono tutte le vite che il Gelmini ha salvato in questi anni. Di più: che male ci sarebbe a molestare sessualmente dei ragazzi già di per sé disagiati e psicologicamente labili? Un bel niente! Dovremmo baciarci i gomiti per il bene che don Gelmini ha fatto alla società e non sputare sentenze radical-scic solo perché il redentore dei drogati si dà a qualche peccatuccio. In fondo

“Queste storie sono il riconoscimento della debolezza umana che fa parte della grandezza del Vangelo. Gesù dice di non essere venuto per i sani, ma per i peccatori”.

Peccato che Messori, che si crede un grande divulgatore del Vangelo, misconosca quei testi che condannano il peccato di pedofilia, anteponendolo addirittura all’omicidio.
Ecco il passo: “Chi scandalizzerà uno di questi piccoli che credono in me, è meglio per lui che gli sia legata al collo una macina d’asino e lo si getti al mare” (Mt. 9,42). Capito, Vittorio? Per i criminali che fanno del male ai piccoli, agli indifesi, come i drogati di don Gelmini, Gesù auspica il suicidio, o il taglio della mano, giusto per rimanere in tema di “tocchi proibiti”. E poi, piantala di strumentalizzare il Vangelo secondo i tuoi beceri standard morali! E’ vero che Gesù è venuto per i malati, ma è altrettanto vero che ha condannato il peccato contro la persona. Quando incontrava i peccatori, non li condannava ma li invitava a pentirsi e a non peccare più! La fede non è una raccolta a premi, è una adesione radicale al Vangelo, per questo diventa ancora più odiosa l’ipocrisia con la quale i farisei di oggi pontificano sulla condotta morale di altri inventando ad hoc nuovi peccati (come quello di omosessualità) e poi nel privato si danno agli eccessi e alle “devianze”.

Terzo: come si permette il Messori di equiparare pedofilia e omosessualità, caratterizzando entrambe come devianze sessuali? Non conosce forse la differenza sostanziale tra abuso e consenso? L’omosessualità è una relazione fra due individui (anche non maggiorenni) consenzienti. La pedofilia è invece una violenza di un individuo su un altro individuo non consenziente. Suvvia, vogliamo uscire dall’era neanderthaliana, una volta per tutte?

“E’ il realismo della Chiesa: c’è chi non si sa fermare davanti agli spaghetti all’amatriciana, chi non sa esimersi dal fare il puttaniere e chi, senza averlo cercato, ha pulsioni omosessuali. E poi su quali basi la giustizia umana santifica l’omosessualità e demonizza la pedofilia?”

Sulla base del concetto di bene e di male, a cui Messori sfugge del tutto, lui che è il giustiziere “divino” dei peccatori comuni, e il redentore dei pedofili che fanno anche del bene. Espongo meglio il concetto. Se io mangio una piattone di spaghetti all’amatriciana o una vaschetta di gelato non faccio del male a nessuno, tranne, forse, a me stessa, poiché il cibo ingurgitato è ricco di grassi e di zuccheri che non fanno proprio bene al mio organismo. Prendiamo il caso Mele e la sua notte di follia: il fatto che Mele abbia passato una notte con due squillo, all’insaputa della famiglia, non dovrebbe essere motivo di scandalo per l’opinione pubblica, (in quanro fatto che rientra nella vita privata del parlamentare), ma il fatto che abbia passato della droga alle ragazze e che poi abbia omesso di soccorrere una delle due, questo invece rientra nel concetto di male, perché con quel gesto sconsiderato Mele ha messo in pericolo la vita di una persona. Chiunque può avere una sua personale visione del peccato, e considerare così l’omosessualità e la frequentazione di prostitute un atto peccaminoso, ma deve scindere il concetto di peccato dal quello di Male. Se le accuse contro don Gelmini si dimostrassero fondate, egli non avrebbe solo commesso un peccato in senso cristiano, ma avrebbe fatto del male a delle persone, pertanto dovrebbe essere perseguito dalla giustizia umana. Mi sembra un concetto talmente elementare da assimilare, che solo Vittorio Messori non ci riesce, a dimostrazione della sua povertà intellettuale, oltre che della sua malafede come cristiano.

Il nostro continua: “la Chiesa ha sempre saputo che seminari e monasteri attirano gli omosessuali. Prima era molto attenta a porre barriere all’ingresso e a sorvegliare la formazione. Chi dimostrava tendenze gay veniva messo fuori. Poi il no alla discriminazione ha permesso l’ingresso in forze degli omosessuali e ora la Chiesa paga quell’imprudenza”.

Avete letto bene? Gli omosessuali sono alla radice delle preto-pedofilia. Come no! Messori non sa, o fa finta di non sapere che alla base dell’ingresso nei seminari di ragazzi non moralmente irreprensibili c’è il calo delle vocazioni, perciò si è reso necessario colmare i posti vacanti anche con uomini con turbe psichiche. Come il corpo dei Marines, anche la Chiesa non va tanto per il sottile in tema di adepti.
Come dire: “meglio una parrocchia con un prete pedofilo che una senza pastore”. Ma l’omosessualità non centra nulla! Omosessuale non è sinonimo di pedofilo. Visto che il problema effettivo sono le tentazioni, la “sessualità disordinata”, perché non precludere l’ingresso nei seminari anche a coloro che mostrano tendenze eterosessuali? Il pedofilo abusa anche di bambine e ragazzine. Oppure, perché non effettuare la castrazione preventiva? O ancora meglio: perché non concedere ai candidati preti una normale vita sessuale, e a quelli che persistono nelle turbe sessuali la scomunica e la denuncia giudiziaria… ma perché Messori non viene espulso dall’albo dei giornalisti per le nefandezze che dice, dimostrando di non capire un emerita mazza di psicologia e sociologia e, cosa ben più grave, come cristiano è carente del dono della misericordia? Perché non incomincia a drogarsi, e a farsi ospitare dalla comunità di don Gelmini, così può ricevere le attenzioni caritatevoli del don e insieme sperimentare la santità, dato che, come lui sostiene, la santità è assolutamente compatibile con una vita sessualmente disordinata”?

martedì, luglio 31, 2007

E voi, chi dite che io sia?

Studio ermeneutico di Mc. 8,27

Se c’è una definizione di fede sulla quale può convergere il pensiero della stragrande maggioranza dei cristiani appartenenti alle più svariate confessioni, è che ognuno di noi dà una risposta personale alla fede e al posto che essa occupa nella propria vita. Se si potesse rappresentare la fede con una immagine reale, apparirebbe come uomini e donne in cammino, un cammino disseminato di ostacoli, di dubbi, ma anche di domande che accompagnano il percorso di discepoli e discepole di Cristo. Personalmente concepisco la fede come movimento, da e verso qualcosa, che nella strada della vita fa spesso degli incontri, a volte piacevoli, altre volte meno piacevoli, e che da questi incontri ne esce rafforzata o indebolita, arricchita o impoverita ecc.
Anche i discepoli di Gesù erano uomini in cammino, alla ricerca di risposte non sempre immediate e scontate. Uno dei brani in cui traspare questa ricerca incessante è proprio Mc. 8,27, dove Gesù interroga i suoi discepoli, prima sulle voci esterne al suo seguito che giravano intorno alla sua persona e al suo operato, poi formulando la stessa domanda ai suoi discepoli. Si tratta di uno dei pochissimi contesti nel Vangelo in cui Gesù pone ai suoi discepoli un interrogativo che riguarda se stesso. Perché mai Gesù invita i discepoli a interrogarsi sulla Sua persona? Qual è il senso di un tale invito? Che risposta si aspettava Gesù dai discepoli e, soprattutto, esisteva ed esiste oggi una risposta univoca e dogmatica?
Chi è Gesù di Nazareth? Per i cristiani ortodossi il Figlio di Dio, per gli ebrei un rabbi e un contestatore delle strutture tradizionale della loro religione, per gli atei un uomo, al massimo un rinnovatore religioso, per gli adepti della New Age un guru e un iniziato ecc. Da questa piccola disamina possiamo ricavare che esistono molte immagini di Gesù e che queste non possono essere ridotte a una variazione dello stesso tema, a una cristologia valida per ogni uomo e per ogni contesto.

Nel corso dei secoli i cristiani hanno risposto in maniera differente all’interrogativo posto da Gesù: molte di queste risposte sono state vinte dalla storia (marcionismo, catarismo, gnosticismo ecc.), altre, invece, con il favore della storia, hanno acquisito grande prestigio e sono oramai parte integrante e irrinunciabile del patrimonio comune e sovraconfessionale di milioni di cristiani. Si pensi alla divinità di Gesù: a parte alcuni credi minoritari come quello dei Testimoni di Geova, è dogma acquisito che Gesù abbia una doppia natura, divina e umana, che confluiscono in un’unica persona. Queste acquisizioni sono il prodotto di dibattiti molto accesi e hanno ricevuto il crisma di dogmi solo a partire dal IV secolo d.C. con i concili ecumenici di Nicea, di Efeso e di Calcedonia (V sec.), e comunque non sono mai stati accettati all’unanimità da tutta la cristianità, lo dimostra il fatto che sacche di cristianesimi “altri” continuavano a sopravvivere in Europa sino a tutto il Medioevo.
Ciò che mi preme discutere qui non è certo la storia della dogmatica cristiana, ma la deriva dogmatica di una riflessione teologica che, partendo da quell’interrogativo enigmatico posto da Gesù, oggi come non mai appare non più come ricerca libera, ma sempre più come ancilla doctrinae, e come avvallo di tradizioni che hanno origine umana e per le quali si rivendica una origine evangelica o altrimenti divina.

Conviene innanzitutto fare un’analisi etimologica del termine "dogma", alla ricerca di slittamenti semantici che il termine potrebbe aver subito nel corso dei secoli, e per la precisione a partire dal concilio di Nicea. La parola "dogma" deriva dal verbo greco dokèo, che tra le diverse accezioni racchiude quella di riflettere, pensare, esprimere un’opinione, decidere (ma quest’ultima accezione esclusiva dell’ambito politico/militare). "Dogma" in origine non aveva alcun taglio dottrinario e nemmeno impositivo; assunse il significato di verità di fede solo successivamente, in ambito religioso cristiano, durante il concilio di Nicea, quando l’imperatore Costantino decise, contro il parere di una parte non insignificante dei vescovi e contro alcune minoranze cristiane come l’arianesimo, che le diatribe dovevano essere spente a colpi di dogmi ai quali tutta la cristianità avrebbe dovuto conformarsi, pena l’esclusione dei vescovi dai privilegi concessi dall’imperatore.
Non vi è alcun dubbio che la dogmatizzazione del cristianesimo e il suo conseguente allontanamento sul piano dell’aderenza al Vangelo e sul piano dell'incisività sul presente, affonda le sue radici nei concili ecumenici e nella fusione tra interessi imperiali e interessi ecclesiali. Pochi cristiani realizzano la portata catastrofica che eventi quali Nicea o Calcedonia ebbero nella vita di milioni di cristiani e i danni che l’imbrigliamento di Gesù e del suo messaggio in formulazioni dogmatiche ha causato e causa ancora oggi.


Se oggi possiamo rivendicare un Gesù come evento aperto, non come categoria ontologica da circoscrivere con definizioni assolute, lo dobbiamo al coraggio di teologi e teologhe che hanno lottato per il riconoscimento all’interno della Chiesa del principio pluralista, anche se c’è chi, come Ratzinger, quella libertà vorrebbe soffocarla. Egli rappresenta, a mio modesto parere, la morte della teologia: la sua ultima fatica libraria conferma il suo dilettantismo teologico. Ratzinger non fa teologia, fa apologetica.
La morte della teologia cristiana iniziò con l’assunzione, da parte dei padri della Chiesa, delle categorie della filosofia greca, in particolare di quella platonica (si veda la dicotomia corpo/spirito ecc.) e di quella aristotelica.
Gesù da annunciatore del Regno dei cieli passa a concetto astratto intorno alla cui natura si specula e si costruisce dogmaticamente il discorso teologico, alla stregua di una legge fisica o di una formula chimica. Gesù da messia ebraico è passato a essere spirituale idolatrato e mitizzato, e il suo messaggio, quello a partire dal quale si dovrebbe costruire la riflessione teologica, bidonato, come se fosse un accessorio di cui ci si può liberare facilmente. Questo Gesù costruito apoditticamente sulla base di formule e definizioni inconfutabili è, in definitiva, un Gesù spersonalizzato, disumanizzato e disumanizzante, è un Gesù fuori dalla storia che non annuncia, non prova emozioni, non piange, non gioisce con i soggetti della storia.

Il Nuovo Testamento è sì testimonianza fedele e, il più delle volte, oculare della vita e dell’azione di Gesù di Nazareth, ma è prima di tutto interpretazione, ricostruzione soggettiva di un evento storico. Gli evangelisti non sono storici, sono interpreti, e frutto della loro interpretazione è il vangelo quadriforme, espressione della fede e delle cristologie di comunità lontane tra loro nel tempo e nello spazio. Qualsiasi linea interpretativa che sconfini nell’idolatria della Bibbia, a favore della propria confessione di appartenenza, è sintomo di fondamentalismo e, soprattutto, sconfessa la stessa organizzazione del canone neotestamentario che non si riduce a un monolinguaggio, a una monoteologia e a una monocristologia. Gesù ha smitizzato la Torah orale, ossia la precettistica farisaica che riduceva la fede a una osservanza ossessiva di norme e divieti che regolavano la vita del fedele in tutte le sue sfacettature. Perché, noi, oggi, dovremmo idolatrare il Nuovo Testamento con il fine di estrapolare i dogmi che autenticano che nostre fedi particolaristiche? Si badi bene che questa non è una critica rivolta alla sola Chiesa cattolica, che ha fatto della sua stessa esistenza un dogma inossidabile, ma a tutte i credi cristiani che praticamente si rifanno ai sistemi dogmatici.

La Chiesa tende a confondere fede e dottrina, ricerca teologica e contenuto normativo e dottrinale. In un’ottica del primato della Tradizione sulla fede, essa vorrebbe imporre ai fedeli una teologia in tutto e per tutto corrispondente alla dottrina professata (anche quando punti rilevanti di essa non abbiano alcuna connessione con quanto Gesù ha predicato e con quanto i primi cristiani hanno praticato), in nome del carattere transtemporale di detta dottrina. Ma la Chiesa, al pari di tutte le istituzioni terrene, non è un soggetto immutabile e incondizionabile, al di fuori e al di sopra del tempo e della storia. Essa in 2000 anni ha subito evoluzione e involuzione, modifiche dottrinali e istituzionali, adeguamenti e immobilismi. Se prendessimo in esame solo il 10% della materia dogmatica su cui si fonda la dottrina cattolica, scopriremmo che nel corso dei secoli essa è andata incontro a modifiche di ogni tipo.

Infine, un ultimo accenno all’ermeneutica.
Negli ultimi vent’anni la metodologia ermeneutica è stata attaccata dalla Congregazione per la dottrina della fede. La libertà teologica è oggi limitata dallo Statuto della teologia e del teologo nella Chiesa formulato dal Vaticano quale strumento di controllo e di vigilanza sugli orientamenti teologici all’interno della Chiesa cattolica. Se da una parte la Chiesa ha tutto il diritto di esternare la propria linea teologica ufficiale, dall’altra non ha il diritto di far coincidere libertà della ricerca teologica con il suo magistero ecclesiale.
L’ermeneutica si avvale dell’apporto delle scienze sociali analitiche, in quanto uno dei suoi principi metodologici è la comprensione del testo biblico a partire dal contesto, dall’ambiente e dalla cultura che lo hanno prodotto. L’uso dell’ermeneutica nell’ambito degli studi esegetici implica inoltre un forte impegno politico e sociale. Essa rappresenta, pertanto, una nuova forma di comprensione della fede cristiana. Avanguardista nell’applicazione del metodo ermeneutico alla esegesi biblica fu R. Bultmann con la sua formulazione della duplicità tra il Cristo della fede e il Gesù della storia.
Le gerarchie vaticane sostengono che l’ermeneutica operi una modernizzazione in forme antitradizionali della figura di Gesù, una pericolosa proiezione che tende a rimuovere la fede dalla riflessione teologica e a delegittimare la tradizione e il magistero della Chiesa.
Ma il punto di partenza della riflessione teologica dovrebbe essere la fede vissuta nella realtà quotidiana, non le formule di Nicea e di Calcedonia. Le formule e i dogmi sono il tentativo di tradurre in linguaggio umano un oggetto, la fede, che rientra nella sfera trascendentale dell’essere e che non nasce dalla formula dogmatica, ma dall’esperienza concreta del credente. Questa traduzione “linguistica” della fede non può trascendere e racchiudere tutte le esperienze di fede e non può rappresentare oggettivamente un qualcosa che si declina in modo soggettivo e particolare in milioni di credenti.
La folla che seguiva Gesù credeva in Lui non perché Gesù durante il suo ministero li aveva istruiti sulla sua doppia natura umana e divina, o sul concetto di Trinità o su altre sofisticherie teologiche. La gente credeva in Lui perché vi aveva riconosciuto il mediatore del Regno di Dio: operava miracoli, parlava come uno che aveva autorità (e non come gli scribi), faceva discorso inauditi, mai sentiti prima, che scandalizzavano i duri di cuore ma affascinavano i puri di cuore e chi non aveva nulla da perdere come prostitute e pubblicani, la feccia della Palestina.
L’errore che la Chiesa fa è quello di annunciare un Cristo fuori dalla storia. Essa ha la presunzione di aver risposto una volta per tutte alla fatidica domanda “E voi, chi credete che io sia?”, e di non aver più nulla da imparare dall’esperienza di fede. Il Cristo predicato dalla Chiesa è perciò niente di più e niente di meno che un idolo, una divinità la cui essenza deve essere definita con la massima precisione e guai a chi, come i teologi modernisti, osano andare oltre le formule conciliari! Ma a che serve sottomettersi docilmente alla dottrina se poi non si “sperimenta” il Cristo nella storia, se non ci abbandoniamo, anche noi uomini moderni, alla sequela, come fece l’esattore di tasse Levi Matteo? Costituisce eresia rigettare una verità di fede o violare uno solo degli insegnamenti di Gesù? Il cristiano non dovrebbe avere delle priorità, e se sì a quali dare la precedenza? All'osservanza sterile di riti e sacramenti e alla credenza in verità di fede che la gente non capisce (fede passiva) o alla costruzione del Regno dei cieli (fede attiva)?

domenica, luglio 08, 2007

Ermeneutica del Vangelo

Con questo post apro una nuova rubrica, “ermeneutica del Vangelo”, che mi permetterà di raggiungere i seguenti obiettivi, che corrispondono ad altrettante diverse esigenze personali:

1) Il primo obiettivo che si prefigge questa sezione del blog è l’applicazione al Vangelo di una prassi esegetica fuori dagli schemi tradizionali, sul solco già tracciato dalle teologia femminista e della Liberazione, ossia di una teologia che prenda spunto innanzitutto dal vissuto quotidiano del credente e che non si uniformi pedissequamente a una dottrina impagliata in astrusità e sofismi, una dottrina che fa acqua da tutte le parti e che ci fa sentire il Dio in cui crediamo lontano e indifferente all’umanità.
2) La premessa di cui sopra non dovrà essere intesa come una riproposizione in chiave personale delle esperienze teologiche del femminismo e dei teologi dell’America Latina. Nonostante consideri la teologia femminista e della Liberazione il fiore all’occhiello della riflessione teologica cattolica, e nonostante ne sia imprescindibilmente suggestionata, data la validità degli assunti di entrambe e il contributo che, in termini di freschezza e di innovazione, esse si fanno portatrici in un panorama teologico dominato dal cattotradizionalismo, cercherò, per quanto possibile, di elaborare un’ermeneutica su base soggettiva, in accordo con la mia sensibilità di credente aconfessionale e adogmatica, applicando al tempo stesso una metodologia che abbia come punto di riferimento il principio pluralista, che proprio da quelle teologie è scaturito e ha ricevuto il crisma della legittimità.
3) Il terzo obiettivo che con questa ricerca ermeneutica mi impongo di realizzare, è quello di far riguadagnare posizione, carisma e autorevolezza a una riflessione marcata al femminile, sempre più emarginata da una Chiesa misogina, autoreferenziale ed escludente. L’aspirazione a riguadagnare terreno nella storia (o a ritagliarsi il proprio spazio per chi ritiene che le donne non ne abbiano mai avuto all’interno del cristianesimo), si può concretamente tradurre in diversi modi, dal rivendicare ruoli guida all’interno delle istituzioni ecclesiastiche, al difendere la propria autodeterminazione relativamente a scelte che riguardano il corpo (come l’aborto) o il proprio modo d’essere e di pensare la fede, o all’intaccare il monopolio interpretativo dei testi sacri. Un modo, a mio avviso molto efficace, per togliere alla teologia maschile il monopolio esegetico sulle sacre scritture, consiste nel sfidare i detentori di tale monopolio sul loro stesso terreno, che è quello dell’esegesi neotestamentaria e del discorso teologico che su di essa si costruisce, minandone alla base quei fondamenti sui quali si basa una interpretazione del Vangelo univoca, concordante con la dottrina cattolica e perciò stesso da invalidare.
4) Un quarto obiettivo, non meno importante degli altri, è quello di definire una cristologia liberatrice, intendendo con ciò una visione di Gesù e del suo messaggio inseriti in un’ottica di liberazione dalle catene del dogmatismo e delle pastoie dottrinarie smerciate come verità assolute dalla Chiesa, che di fatto soffocano la libera espressione teologica del credente. Come è risaputo, infatti, la Chiesa insegna che al di fuori di essa e al di fuori dell’adesione incondizionata ai suoi insegnamenti non c’è salvezza per il fedele, chi si pone con un atteggiamento di rifiuto o anche di critica verso la dottrina cattolica è condannato alla dannazione eterna. Si tratta, oltre che di un atteggiamento intollerante che discrimina una buona percentuale degli abitanti di questo pianeta (che cattolica non è), di un atteggiamento che mira a uccidere la libera espressione teologica sia all’interno che all’esterno della Chiesa. Se con il Concilio vaticano II si erano aperti degli spiragli in direzione dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso, a partire dall’ascesa di Giovanni Paolo II si è imposta una tendenza inarrestabile alla restaurazione e all’indottrinamento su base conservatrice del popolo dei fedeli, è si è sguinzagliato un organismo, la Congregazione per la dottrina della fede, che ha imposto una fede devozionale e spersonalizzata, in opposizione a una fede matura, esternazione della coscienza del credente. La moderna Inquisizione ha mietuto vittime soprattutto in quei luoghi e in quelle realtà ecclesiali dove l’influenza della Chiesa era meno forte e dove vi era perciò ancora spazio per elaborazioni teologiche non allineate. Il pluralismo è stato quindi soppiantato dall’omologazione teologica attraverso lo spauracchio rappresentato dal prefetto Ratzinger.
5) La definizione di teologia come pluralità di voci, di sensibilità e di carismi in un contesto di riconoscimento e di valorizzazione di tutte le posizioni, è poi un altro obiettivo irrinunciabile, e a questo punto va fatta una considerazione non del tutto scontata. Qualsiasi discorso teologico è per sua natura limitato, soggettivo, fallibile e persino superabile, cioè aperto alle modifiche e agli stimoli derivanti dal dialogo e da un confronto anche acceso. Detto ciò, è da rigettare qualsiasi pretesa di infallibilità sia essa rivendicata dalla gerarchia ecclesiastica o da singoli individui. Una delle poche conquiste della teologia medievale è la concezione di Dio come entità onnipotente, onnipresente e onnisciente. L’onniscienza è un attributo appartenente solo all’essere divino o alla Trinità, (per i cristiani che credono in tale dogma), dunque qualsiasi pensiero teologico, prodotto della riflessione umana, rifletterà la limitatezza e l’imperfezione che caratterizza l’essere umano, è non potrà in alcun modo essere ammantato di una veste di assolutezza e di infallibilità. Inoltre, la storia del cristianesimo ci insegna che gli errori che le istituzioni ecclesiastiche hanno commesso in nome dell’infallibilità, altro non sono che ulteriori conferme di quanto sopra espresso.
6) La definizione di teologia come movimento, evoluzione, in conformità con quanto afferma Gesù in Gv. 3,8: “Il vento spira dove vuole: ne senti la voce, ma non sai né dove viene, né dove va; così è d chiunque è nato dallo Spirito”. Anche in questo caso ci può essere d’aiuto la storia del cristianesimo: quante dottrine, quanti insegnamenti errati, che sino a poco tempo fa, erano considerati verità rivelata, sono stati corretti o abbandonati? Pensiamo alla credenza nell’esistenza dell’Inferno o alla teoria geocentrica confutata da Copernico e da Galileo! Non è forse vero che alle sue origini il movimento cristiano era frantumato in correnti e comunità spesso in disaccordo o addirittura in concorrenza tra loro? Pensiamo all’ostilità tra i giudeocristiani guidati da Giacomo il giusto e le comunità paoline e alla loro differente interpretazione della fede cristologica e della sua collocazione all’interno dell’ebraismo; già pochi anni dopo la morte di Gesù emersero divergenze teologiche tra i vari gruppi che si richiamavano a Lui e alla sua predicazione e che rivendicavano la leadership all’interno del nascente movimento cristiano. Ma, al di là degli interessi di parte e spesso per niente nobili, queste comunità delle origini elaborarono una cristologia e una teologia a partire dal proprio contesto socio-economico e religioso di riferimento, di conseguenza ognuno sponsorizzava il proprio “Gesù”: così il Gesù dei seguaci di Giacomo appariva con sembianze giudaizzanti, il Gesù di Paolo come un salvatore dai tratti simili alle divinità dei culti pagani dell’Asia minore, il Gesù dei seguaci di Giovanni come un rivelatore, il Logos incarnato ecc. Se, quindi, già da subito si manifestò, in tutta la sua ricchezza creativa, un pluralismo teologico il cui nucleo centrale, pur tra mille espressioni, era la fede in Cristo, la sua morte e la sua resurrezione, perché oggi, a distanza di duemila anni, la Chiesa, che si autoproclama unica depositaria della tradizione apostolica, esige una cieca ed insensata obbedienza alla propria dottrina? Perché pretendere una omologazione dottrinaria se nemmeno gli apostoli, e men che meno Pietro, il primo papa secondo il catechismo, avevano le idee chiare in materia dottrinaria e, soprattutto, nonostante ognuno di loro tirasse acqua al proprio mulino, non aspirò mai ad elaborare una briciola di dottrina vincolante per tutti i credenti in Cristo e nemmeno pretese di imporre le proprie idee ad altre comunità, come dimostra il compromesso raggiunto ad Antiochia tra Paolo e la comunità petrina (dove Pietro dimostrò un senso del realismo da fare invidia all’attuale papa)? Non è la stessa dottrina cattolica il prodotto della convergenza di posizioni teologiche inizialmente antitetiche, come si evince dalla composizione del canone del Nuovo Testamento, dove coesistono teologie e cristologie profondamente discordanti, espressione della fede di comunità autonome e spesso autoreferenziali?
7) Infine, è lo stesso Vangelo che ci invita a interrogarci su Gesù di Nazareth, sulla sua missione e sul suo significato: “Ma voi, domandò loro, chi dite che io sia?” (Mt. 16,15). Allora, come si ricava dalle diverse risposte che i discepoli danno all’interrogativo posto da Gesù, l’importante non è dare la risposta giusta, come vuole la Chiesa, ma interrogarsi continuamente, ricercare il senso che sta dietro alla vita e alla morte di un uomo che ha cambiato il corso della storia, e ognuno di noi può farlo non a partire da una fede astratta, ma da una fede che si concretizza nelle difficoltà e nelle esperienze che la vita ci riserva.
E’ perciò proprio sulla base di tali argomentazioni che intraprenderò questo itinerario alla scoperta del Nuovo testamento e della sua eterogeneità teologica, sperando di fare un buon lavoro e di offrire nuovi spunti di riflessione ai lettori di questo piccolo blog.
Buona lettura a tutti!

Gnostica
Gesù disse, "Se coloro che vi guidano vi diranno: "Ecco, il Regno è nei cieli", allora gli uccelli dei cieli vi precederanno. Se vi diranno: "E nei mari", allora i pesci vi precederanno. Il Regno, invece, è dentro di voi e fuori di voi. Vangelo di Tommaso, Loghion 3