martedì, luglio 31, 2007

E voi, chi dite che io sia?

Studio ermeneutico di Mc. 8,27

Se c’è una definizione di fede sulla quale può convergere il pensiero della stragrande maggioranza dei cristiani appartenenti alle più svariate confessioni, è che ognuno di noi dà una risposta personale alla fede e al posto che essa occupa nella propria vita. Se si potesse rappresentare la fede con una immagine reale, apparirebbe come uomini e donne in cammino, un cammino disseminato di ostacoli, di dubbi, ma anche di domande che accompagnano il percorso di discepoli e discepole di Cristo. Personalmente concepisco la fede come movimento, da e verso qualcosa, che nella strada della vita fa spesso degli incontri, a volte piacevoli, altre volte meno piacevoli, e che da questi incontri ne esce rafforzata o indebolita, arricchita o impoverita ecc.
Anche i discepoli di Gesù erano uomini in cammino, alla ricerca di risposte non sempre immediate e scontate. Uno dei brani in cui traspare questa ricerca incessante è proprio Mc. 8,27, dove Gesù interroga i suoi discepoli, prima sulle voci esterne al suo seguito che giravano intorno alla sua persona e al suo operato, poi formulando la stessa domanda ai suoi discepoli. Si tratta di uno dei pochissimi contesti nel Vangelo in cui Gesù pone ai suoi discepoli un interrogativo che riguarda se stesso. Perché mai Gesù invita i discepoli a interrogarsi sulla Sua persona? Qual è il senso di un tale invito? Che risposta si aspettava Gesù dai discepoli e, soprattutto, esisteva ed esiste oggi una risposta univoca e dogmatica?
Chi è Gesù di Nazareth? Per i cristiani ortodossi il Figlio di Dio, per gli ebrei un rabbi e un contestatore delle strutture tradizionale della loro religione, per gli atei un uomo, al massimo un rinnovatore religioso, per gli adepti della New Age un guru e un iniziato ecc. Da questa piccola disamina possiamo ricavare che esistono molte immagini di Gesù e che queste non possono essere ridotte a una variazione dello stesso tema, a una cristologia valida per ogni uomo e per ogni contesto.

Nel corso dei secoli i cristiani hanno risposto in maniera differente all’interrogativo posto da Gesù: molte di queste risposte sono state vinte dalla storia (marcionismo, catarismo, gnosticismo ecc.), altre, invece, con il favore della storia, hanno acquisito grande prestigio e sono oramai parte integrante e irrinunciabile del patrimonio comune e sovraconfessionale di milioni di cristiani. Si pensi alla divinità di Gesù: a parte alcuni credi minoritari come quello dei Testimoni di Geova, è dogma acquisito che Gesù abbia una doppia natura, divina e umana, che confluiscono in un’unica persona. Queste acquisizioni sono il prodotto di dibattiti molto accesi e hanno ricevuto il crisma di dogmi solo a partire dal IV secolo d.C. con i concili ecumenici di Nicea, di Efeso e di Calcedonia (V sec.), e comunque non sono mai stati accettati all’unanimità da tutta la cristianità, lo dimostra il fatto che sacche di cristianesimi “altri” continuavano a sopravvivere in Europa sino a tutto il Medioevo.
Ciò che mi preme discutere qui non è certo la storia della dogmatica cristiana, ma la deriva dogmatica di una riflessione teologica che, partendo da quell’interrogativo enigmatico posto da Gesù, oggi come non mai appare non più come ricerca libera, ma sempre più come ancilla doctrinae, e come avvallo di tradizioni che hanno origine umana e per le quali si rivendica una origine evangelica o altrimenti divina.

Conviene innanzitutto fare un’analisi etimologica del termine "dogma", alla ricerca di slittamenti semantici che il termine potrebbe aver subito nel corso dei secoli, e per la precisione a partire dal concilio di Nicea. La parola "dogma" deriva dal verbo greco dokèo, che tra le diverse accezioni racchiude quella di riflettere, pensare, esprimere un’opinione, decidere (ma quest’ultima accezione esclusiva dell’ambito politico/militare). "Dogma" in origine non aveva alcun taglio dottrinario e nemmeno impositivo; assunse il significato di verità di fede solo successivamente, in ambito religioso cristiano, durante il concilio di Nicea, quando l’imperatore Costantino decise, contro il parere di una parte non insignificante dei vescovi e contro alcune minoranze cristiane come l’arianesimo, che le diatribe dovevano essere spente a colpi di dogmi ai quali tutta la cristianità avrebbe dovuto conformarsi, pena l’esclusione dei vescovi dai privilegi concessi dall’imperatore.
Non vi è alcun dubbio che la dogmatizzazione del cristianesimo e il suo conseguente allontanamento sul piano dell’aderenza al Vangelo e sul piano dell'incisività sul presente, affonda le sue radici nei concili ecumenici e nella fusione tra interessi imperiali e interessi ecclesiali. Pochi cristiani realizzano la portata catastrofica che eventi quali Nicea o Calcedonia ebbero nella vita di milioni di cristiani e i danni che l’imbrigliamento di Gesù e del suo messaggio in formulazioni dogmatiche ha causato e causa ancora oggi.


Se oggi possiamo rivendicare un Gesù come evento aperto, non come categoria ontologica da circoscrivere con definizioni assolute, lo dobbiamo al coraggio di teologi e teologhe che hanno lottato per il riconoscimento all’interno della Chiesa del principio pluralista, anche se c’è chi, come Ratzinger, quella libertà vorrebbe soffocarla. Egli rappresenta, a mio modesto parere, la morte della teologia: la sua ultima fatica libraria conferma il suo dilettantismo teologico. Ratzinger non fa teologia, fa apologetica.
La morte della teologia cristiana iniziò con l’assunzione, da parte dei padri della Chiesa, delle categorie della filosofia greca, in particolare di quella platonica (si veda la dicotomia corpo/spirito ecc.) e di quella aristotelica.
Gesù da annunciatore del Regno dei cieli passa a concetto astratto intorno alla cui natura si specula e si costruisce dogmaticamente il discorso teologico, alla stregua di una legge fisica o di una formula chimica. Gesù da messia ebraico è passato a essere spirituale idolatrato e mitizzato, e il suo messaggio, quello a partire dal quale si dovrebbe costruire la riflessione teologica, bidonato, come se fosse un accessorio di cui ci si può liberare facilmente. Questo Gesù costruito apoditticamente sulla base di formule e definizioni inconfutabili è, in definitiva, un Gesù spersonalizzato, disumanizzato e disumanizzante, è un Gesù fuori dalla storia che non annuncia, non prova emozioni, non piange, non gioisce con i soggetti della storia.

Il Nuovo Testamento è sì testimonianza fedele e, il più delle volte, oculare della vita e dell’azione di Gesù di Nazareth, ma è prima di tutto interpretazione, ricostruzione soggettiva di un evento storico. Gli evangelisti non sono storici, sono interpreti, e frutto della loro interpretazione è il vangelo quadriforme, espressione della fede e delle cristologie di comunità lontane tra loro nel tempo e nello spazio. Qualsiasi linea interpretativa che sconfini nell’idolatria della Bibbia, a favore della propria confessione di appartenenza, è sintomo di fondamentalismo e, soprattutto, sconfessa la stessa organizzazione del canone neotestamentario che non si riduce a un monolinguaggio, a una monoteologia e a una monocristologia. Gesù ha smitizzato la Torah orale, ossia la precettistica farisaica che riduceva la fede a una osservanza ossessiva di norme e divieti che regolavano la vita del fedele in tutte le sue sfacettature. Perché, noi, oggi, dovremmo idolatrare il Nuovo Testamento con il fine di estrapolare i dogmi che autenticano che nostre fedi particolaristiche? Si badi bene che questa non è una critica rivolta alla sola Chiesa cattolica, che ha fatto della sua stessa esistenza un dogma inossidabile, ma a tutte i credi cristiani che praticamente si rifanno ai sistemi dogmatici.

La Chiesa tende a confondere fede e dottrina, ricerca teologica e contenuto normativo e dottrinale. In un’ottica del primato della Tradizione sulla fede, essa vorrebbe imporre ai fedeli una teologia in tutto e per tutto corrispondente alla dottrina professata (anche quando punti rilevanti di essa non abbiano alcuna connessione con quanto Gesù ha predicato e con quanto i primi cristiani hanno praticato), in nome del carattere transtemporale di detta dottrina. Ma la Chiesa, al pari di tutte le istituzioni terrene, non è un soggetto immutabile e incondizionabile, al di fuori e al di sopra del tempo e della storia. Essa in 2000 anni ha subito evoluzione e involuzione, modifiche dottrinali e istituzionali, adeguamenti e immobilismi. Se prendessimo in esame solo il 10% della materia dogmatica su cui si fonda la dottrina cattolica, scopriremmo che nel corso dei secoli essa è andata incontro a modifiche di ogni tipo.

Infine, un ultimo accenno all’ermeneutica.
Negli ultimi vent’anni la metodologia ermeneutica è stata attaccata dalla Congregazione per la dottrina della fede. La libertà teologica è oggi limitata dallo Statuto della teologia e del teologo nella Chiesa formulato dal Vaticano quale strumento di controllo e di vigilanza sugli orientamenti teologici all’interno della Chiesa cattolica. Se da una parte la Chiesa ha tutto il diritto di esternare la propria linea teologica ufficiale, dall’altra non ha il diritto di far coincidere libertà della ricerca teologica con il suo magistero ecclesiale.
L’ermeneutica si avvale dell’apporto delle scienze sociali analitiche, in quanto uno dei suoi principi metodologici è la comprensione del testo biblico a partire dal contesto, dall’ambiente e dalla cultura che lo hanno prodotto. L’uso dell’ermeneutica nell’ambito degli studi esegetici implica inoltre un forte impegno politico e sociale. Essa rappresenta, pertanto, una nuova forma di comprensione della fede cristiana. Avanguardista nell’applicazione del metodo ermeneutico alla esegesi biblica fu R. Bultmann con la sua formulazione della duplicità tra il Cristo della fede e il Gesù della storia.
Le gerarchie vaticane sostengono che l’ermeneutica operi una modernizzazione in forme antitradizionali della figura di Gesù, una pericolosa proiezione che tende a rimuovere la fede dalla riflessione teologica e a delegittimare la tradizione e il magistero della Chiesa.
Ma il punto di partenza della riflessione teologica dovrebbe essere la fede vissuta nella realtà quotidiana, non le formule di Nicea e di Calcedonia. Le formule e i dogmi sono il tentativo di tradurre in linguaggio umano un oggetto, la fede, che rientra nella sfera trascendentale dell’essere e che non nasce dalla formula dogmatica, ma dall’esperienza concreta del credente. Questa traduzione “linguistica” della fede non può trascendere e racchiudere tutte le esperienze di fede e non può rappresentare oggettivamente un qualcosa che si declina in modo soggettivo e particolare in milioni di credenti.
La folla che seguiva Gesù credeva in Lui non perché Gesù durante il suo ministero li aveva istruiti sulla sua doppia natura umana e divina, o sul concetto di Trinità o su altre sofisticherie teologiche. La gente credeva in Lui perché vi aveva riconosciuto il mediatore del Regno di Dio: operava miracoli, parlava come uno che aveva autorità (e non come gli scribi), faceva discorso inauditi, mai sentiti prima, che scandalizzavano i duri di cuore ma affascinavano i puri di cuore e chi non aveva nulla da perdere come prostitute e pubblicani, la feccia della Palestina.
L’errore che la Chiesa fa è quello di annunciare un Cristo fuori dalla storia. Essa ha la presunzione di aver risposto una volta per tutte alla fatidica domanda “E voi, chi credete che io sia?”, e di non aver più nulla da imparare dall’esperienza di fede. Il Cristo predicato dalla Chiesa è perciò niente di più e niente di meno che un idolo, una divinità la cui essenza deve essere definita con la massima precisione e guai a chi, come i teologi modernisti, osano andare oltre le formule conciliari! Ma a che serve sottomettersi docilmente alla dottrina se poi non si “sperimenta” il Cristo nella storia, se non ci abbandoniamo, anche noi uomini moderni, alla sequela, come fece l’esattore di tasse Levi Matteo? Costituisce eresia rigettare una verità di fede o violare uno solo degli insegnamenti di Gesù? Il cristiano non dovrebbe avere delle priorità, e se sì a quali dare la precedenza? All'osservanza sterile di riti e sacramenti e alla credenza in verità di fede che la gente non capisce (fede passiva) o alla costruzione del Regno dei cieli (fede attiva)?

1 commento:

Gnostica ha detto...

Ecco come Leonardo Boff, teologo della Liberazione, risponde all'interrogativo:

L'incanrnazione [di Gesù], è il punto di arrivo, non il punto di partenza E' il culmine di tutto il processo cristologico che inizia ben prima, con la domanda che ponevano già le masse, piene di ammirazione e perplessità: Chi è costui? Chi è costui al quale obbediscono anche i venti e il mare? (Mt. 8,27; Mc. 4,41; Lc. 8,25). La base di tutto è l'impatto che il Gesù storico produsse: la sua parola forte, i suoi gesti liberatori, la sua libertà di fronte alla Legge, la sua autorità sovrana, e poi la sua morte vergognosa e la sua gloriosa resurrezione. Questi fatti, specialmente la resurrezione, hanno radicalizzato la domanda che si ponevano tutti, compresi gli apostoli e i discepoli: in definitiva, chi è il Gesù che conosciamo, e "che abbiamo udito", che "abbiamo veduto con i nostri occhi", che "le nostre mani hanno toccato" (1Gv 1,1)? Gli oltre cinquanta titoli attribuiti a Gesù, dai più semplici come maestro, profeta, buono... ai più sublimi, come Figlio di David, Figlio dell'uomo, Figlio di Dio, Salvatore e Dio... danno conto della perplessità e delle domande suscitate nella comunità.

Leonardo Boff, Deporre i poveri dalla croce, pag. 31

Gesù disse, "Se coloro che vi guidano vi diranno: "Ecco, il Regno è nei cieli", allora gli uccelli dei cieli vi precederanno. Se vi diranno: "E nei mari", allora i pesci vi precederanno. Il Regno, invece, è dentro di voi e fuori di voi. Vangelo di Tommaso, Loghion 3